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lundi, 20 septembre 2010

Teheran, Damasco e Caracas: il triangolo strategico

Teheran, Damasco e Caracas: il triangolo strategico

di Pamela Schirru

Fonte: eurasia [scheda fonte]

Teheran, Damasco e Caracas: il triangolo strategico

Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it

Che l’Iran annoveri tra le sue “amicizie di lungo corso” anche il Venezuela non è una novità. Oltre al Brasile e alla Bolivia, nella lista dei partners politici latino-americani un posto di rilievo è occupato proprio dal Venezuela di Hugo Chavez. Un’amicizia lunga all’incirca un decennio quella che lega il leader maximo al presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad, rinnovata da frequenti incontri ufficiali. Nel 2004, in occasione di una visita ufficiale del presidente venezuelano in Iran, l’allora sindaco di Teheran Ahmadinejad (non ancora eletto alla carica presidenziale) rese omaggio al leader con l’inaugurazione di una statua raffigurante l’eroe nazionale Simon Bolivar, all’interno del parco Goft-o-Gou nei pressi della capitale iraniana. Nel 2006, Ahmadinejad e Chavez si rincontrano. Il primo da un anno è il presidente della Repubblica Islamica dell’Iran, il secondo, invece da due anni è di nuovo alla guida della Repubblica Bolivariana del Venezuela. Il luogo dell’incontro stavolta è Caracas. È qui che i due leader rinnovano la loro “amicizia politica ed economica”. Un’alleanza, quest’ultima, incoraggiata nel 2005 proprio dal neo eletto presidente iraniano, deciso ad avviare una stretta collaborazione con i Paesi dell’America Latina. E il governo venezuelano non si è tirato indietro, accettando la sfida lanciata dal presidente iraniano. In cinque anni, le visite ufficiali del presidente venezuelano a Teheran si sono intensificate, segno di una buona intesa tra i due Paesi. In un solo anno (2007), Chavez ha raggiunto il suo omologo iraniano per ben due volte. Al centro dei loro incontri, la tutela dei reciproci vantaggi economici. Non c’è dubbio che Venezuela e Iran sono legati l’una all’altra da un doppio filo. Lo sono dal punto di vista politico, quando Chavez sostiene il diritto dell’Iran a sfruttare il nucleare per scopi essenzialmente civili; lo sono dal punto di vista economico, quando stringono accordi. A tal proposito, è opportuno ricordare il viaggio di Chavez in Iran del 2008. In questo frangente, il leader venezuelano ha avanzato una proposta al presidente iraniano: sostenere alcuni progetti industriali entro i confini nazionali bolivariani, attraverso il coinvolgimento di enti e società private iraniane. Un esempio perfetto di cooperazione “sud-sud”: l’Iran fornirebbe al Venezuela gli strumenti necessari, ovvero servizi tecnici e adeguata manodopera affinché questa concretizzi i numerosi progetti di espansione urbanistica e di sostegno all’edilizia locale. Un sistema di scambi e favori reciproci, quello messo in piedi dal governo di Caracas e favorito da quello iraniano, fondato essenzialmente sul rapporto qualità – prezzo.

L’Iran vede come prioritario – al fine di dare impulso alla sua economia interna – l’esportazione di servizi tecnici verso altri Paesi e in qualsiasi mercato che li richieda. Sull’altro versante, la parte venezuelana necessita di rinverdire il mercato interno attraverso buoni investimenti e mediante progetti frutto di una cooperazione sostenuta da costi ragionevoli e qualità di servizi. E l’Iran sembra volerglieli offrire. Sempre nel 2008, il governo iraniano ha firmato 150 accordi commerciali del valore di 20 miliardi con il Venezuela e si è classificato terzo tra i Paesi investitori. Alla luce di ciò, l’intesa tra i due è andata ben oltre, fino a toccare altri settori dell’economia: dall’elettricità all’ambiente, dall’agricoltura all’industria automobilistica. Compagnie miste venezuelano – iraniane fabbricano mattoni, producono latte e lanciano sul mercato auto e biciclette.

I due Paesi, in quanto membri OPEC, cooperano anche nel settore energetico – petrolifero. Un’intesa, la loro, sancita nel 1960 con la creazione dell’Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio alla quale aderirono in origine, oltre all’Iran e al Venezuela, anche Arabia Saudita, Iraq e Kuwait. Attualmente, l’organizzazione si è ampliata fino a contare 11 membri permanenti. Tuttavia, l’idillio tra OPEC e Iran-Venezuela ha iniziato a scricchiolare nel 2008, quando l’asse Teheran/ Caracas ha inferto un duro colpo al cartello che controlla le esportazioni di greggio sul mercato globale. Al centro della disputa la valuta di scambio: meglio il dollaro o l’euro? Una diatriba culminata con una profonda frattura interna: l’Iran ha modificato il suo listino prezzi in euro, nonostante i restanti membri Opec abbiano mantenuto inalterata la valuta di scambio in dollari. Mentre Caracas ha optato per una politica monetaria ad hoc, da applicare al settore import-export. La misura è stata varata dal governo venezuelano ai primi di gennaio 2010 e consiste non tanto in una svalutazione, bensì in un adeguamento del valore della sua moneta, il bolivar in base alle necessità dettate dal mercato. In poche parole, il Venezuela può scegliere su una valuta debole e forte. Che cosa significa questo? Che la moneta nazionale si conforma alle diverse condizioni economiche, soprattutto nel settore delle esportazioni. L’economia bolivariana è strettamente legata alla produzione di materie prime, in particolare al petrolio, di cui possiede la quarta  più grande riserva certificata al mondo, dopo Iraq e Arabia Saudita, dopo le recenti scoperte nei pressi della Faglia di Orinoco: 314 milioni di barili estraibili, un terzo di tutte le riserve petrolifere mondiali. Fino al 2008, le entrate derivanti dal petrolio avevano raggiunto picchi elevatissimi, grazie all’ingente produzione di barili (stimati in oltre 3 milioni di barili al giorno) e al loro costo, altrettanto elevato: ciascun barile di “oro nero” costava intorno ai 100/150 dollari. Ma nell’ultimo trimestre dello stesso anno qualcosa inizia a cambiare, soprattutto a causa della crisi economica globale. Il prezzo del petrolio inizia a calare, fino a raggiungere la soglia dei 30 dollari a barile nel 2009. Per far fronte alla drastica caduta dei prezzi, l’OPEC opera un taglio altrettanto drastico della produzione pari al 25% al fine di ripristinare un certo equilibrio. Come ha reagito il Venezuela? Adeguando il prezzo della sua moneta alle sue individuali necessità. A partire dal 7 gennaio 2010, infatti, il governo di Caracas ha dato avvio al processo di “svalutazione-adeguamento” della moneta nazionale, dapprima per i prodotti di prima necessità per poi estendersi al settore petrolifero.

Una linea retta ideale unisce Teheran a Caracas passando per Damasco. E se i punti di questa linea si unissero, essi formerebbero un triangolo imperfetto. Iran, Siria e Venezuela che cosa hanno in comune queste tre realtà? Ad esempio, una rotta aerea percorsa due volte al mese da un vettore dell’Iran Air, la compagnia aerea iraniana. Per due sabati al mese, un Boieng 747SP decolla dall’aeroporto internazionale di Teheran e opera uno scalo di 90 minuti in terra siriana, prima di ripartire alla volta del Maiquetia International Airport di Caracas. Nata dall’intesa tra la società di trasporti venezuelano Conviasa e la compagnia di bandiera persiana Iran Air e inaugurata il 2 febbraio 2007, la rotta ha fin da subito generato sospetti sul versante occidentale. Dubbi e ipotesi hanno fatto da cornice in questi tre anni al volo 744 dell’Iran Air: che cosa trasporterà? Chi volerà a bordo dei suoi vettori? Domande rimaste senza risposta, se non fosse per alcune indiscrezioni filtrate dalle pagine di un “memorandum” risalente al 2008 e compilato da funzionari dei servizi segreti israeliani. Dietro il volo 744 dell’Iran Air si ritiene ci sia uno scambio di favori militari per via aerea. In poche parole, Chavez consentirebbe al leader iraniano di adoperare liberamente i propri aerei di linea in cambio di aiuti di varia natura: dal trasferimento di materiale scientifico verso i laboratori del Centro di studi e ricerca siriano a Damasco, agli aiuti militari diretti a Caracas. In particolare, si tratterebbe di spedizioni di macchine CNC, computer per il controllo di missili e di materiale per lo sviluppo di vettori. Le spedizioni verso “la zona franca” siriana sarebbero state fatte da una società iraniana – la “Shaid Bakeri” – nonostante i veti internazionali. Infatti, l’azienda è stata inclusa nel dicembre 2006 nella lista degli enti sanzionati dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (ris.1737), in ragione del ruolo svolto dall’Iran nello sviluppo del suo programma missilistico. Sanzioni ratificate lo scorso 18 giugno dall’Unione Europea. Nonostante i divieti imposti dalla comunità internazionale, la Siria avrebbe pertanto ricoperto il ruolo di corridoio di passaggio per gli scambi tra Teheran e Caracas.

Al di là di ipotesi e di supposizioni, le relazioni tra Caracas/Damasco e Iran/Damasco sembrano godere di buona salute. Nel primo caso, Chavez ha promesso al presidente siriano, Bashar al Asad, un supporto economico nella realizzazione di infrastrutture in terra siriana. In particolare, il governo venezuelano investirà nella costruzione di una raffineria che dovrà essere pronta entro il 2013. La struttura avrà la capacità di lavorare 140 mila barili al giorno. Mentre Caracas in veste di promotore finanziario, deterrà almeno il 30% delle azioni: la restante percentuale sarà ripartita tra Siria e Iran. Il progetto verrà portato avanti da un’impresa mista creata nel 2009, di cui fanno parte anche Iran, Malesia, Siria e appunto Venezuela e secondo stime approssimative, costerà circa 4,7 miliardi. Un piano ambizioso, ma nel contempo un segnale positivo nel settore dell’economia nazionale siriana nonché una prova di apertura nei confronti del mercato sud-americano. Le intenzioni di Caracas verso la Siria si sono spinte oltre: il 28 luglio 2010 nel corso della visita di Stato del presidente Asad a Caracas, il leader bolivariano ha esteso l’invito alla Siria a prendere parte all’ALBA, ovvero all’Alleanza Bolivariana per i Popoli di Nuestra America, in veste di osservatore del prossimo vertice del gruppo. L’intesa tra i due presidenti è sfociata poi nella firma di quattro accordi di collaborazione, in materia agricola e scientifica, che riguardano il trasferimento di tecnologie indispensabili per l’installazione di una fabbrica di olio d’oliva in territorio siriano.

Solidissimo il sodalizio tra Iran e Siria. Un’intesa strategica rafforzata nel corso delle due guerre del Golfo e cementata dal comune obiettivo di contrastare l’influsso israeliano nella Regione: dal 1967 la Siria rivendica le Alture del Golan occupate da Israele. Negli ultimi trent’anni, la vicinanza con l’Iran ha inoltre permesso alla Siria di uscire dal suo isolamento internazionale, durato troppo a lungo: dal 1963 al 2000. Cioè dall’ultimo colpo di Stato inferto alla già fragile struttura politica siriana dal partito baath, fino all’ascesa di Bashar al Asad, attuale presidente siriano e principale promotore di una politica distensiva in campo economico, favorevole ad un’apertura del mercato siriano verso l’esterno. Ma non solo. Entrambe sorreggono il movimento sciita libanese Hezbollah e la fazione radicale palestinese, Hamas. Infine, la Siria (come il Venezuela di Chavez) appoggia il diritto dell’Iran a proseguire lungo la strada dell’arricchimento dell’uranio, al fine di completare il suo programma nucleare per scopi essenzialmente civili. Come hanno più volte ribadito i presidenti dell’Asse Sud Americano-Asiatico, non è illegale fornire aiuti all’Iran e alla sua economia,martellata dalle pesanti sanzioni inflitte dalle Nazioni Unite e ratificate puntualmente dall’Unione Europea.

* Pamela Schirru è laureanda in Filosofia Politica (Università di Cagliari)

mercredi, 25 août 2010

Is wiskunde "halal"?

 
 

Is wiskunde ‘halal’?

Sinds zowat 400 jaar zijn de exacte wetenschappen voor sommige fundamentalisten in Afrika, het Midden-Oosten en Zuidoost-Azië ‘onrein’. Wat verwijten deze moslims de mathematica, ‘in hemelsnaam’, vraagt wiskundige Dirk Huylebrouck zich af.

Boko Haram, letterlijk: westers onderwijs is een zonde. Het is de naam voor een Nigeriaanse rebellengroep, die vecht tegen het onderwijs in de wiskunde. De sekteleden zijn bang dat kinderen door de invloed van moderne scholen hun islamitische wortels verliezen. Hun leider Mohammed Yusuf pleit voor een religieuze samenleving zonder westerse invloeden: ‘De democratie en het huidige onderwijssysteem moeten veranderen. Anders zal de oorlog, die op het punt staat te beginnen, lang duren.’ Het belangrijkste strijdpunt van ‘Boko Haram’ is een verbod van moderne scholen, die vandaag steeds meer de islamitische scholen vervangen. In die laatste wordt traditioneel onder een boom of in een huisje aan de leerlingen het schrijven aangeleerd en het opdreunen van de Koran, en, op latere leeftijd, de Arabische literatuur en de theologie.

islamitische school

In veel islamitische scholen leren kinderen de Koran opdreunen en krijgen ze geen wiskunde.

Maar Engels, wiskunde en natuurwetenschappen worden niet onderwezen. Verzet tegen lessen biologie wegens soms expliciete seksuele feiten, tegen de dominantie van het Engels ‘van de Amerikaanse vijand’, of tegen geschiedenislessen die de evolutieleer voorstaan, het zou ons nog vertrouwelijk in de oren kunnen klinken. Maar wat ‘in hemelsnaam’ kan de oorzaak zijn van een tegenkanting tegen de wiskunde? Gebruikt de mathematica niet even abstracte patronen als deze die de moskeeën versieren? Duiden de ‘Hindoe-Arabische’ cijfers niet op een duidelijke band tussen de wiskunde en de Arabische wereld? Het woord ‘cijfer’ verwijst trouwens naar het Arabische sifr wat nul betekent. En nog steeds schrijven we bij het uitvoeren van een vermenigvuldiging onze getallen onder elkaar, van rechts naar links, alsof we Arabisch schreven.

In vele scholen in moslimlanden worden de exacte wetenschappen gewoon niet onderwezen. In de meerderheid van Aziatische madrassa’s of Koranscholen wordt geen cijfer geschreven, tenzij het een nummer zou zijn van een deel uit het Heilige Boek. De Arabische universiteiten blinken dan ook niet uit door de aanwezigheid van eersterangs wiskundigen: sinds 400 jaar is er geen enkele Arabische topwiskundige geweest – dit in grote tegenstelling tot bijvoorbeeld de ontelbare joodse namen die de wiskundige erelijsten sieren.

Slechte cijfers

Sinds 2003 oefent de Singaporese overheid grote druk uit op de Koranscholen, omdat de overheid had vastgesteld dat de kennis van niet-religieuze vakken er heel gebrekkig is. Ze eiste dat tegen 2010 de zes Singaporese madrassa’s een vastgesteld basisniveau zouden halen, zoniet zou hen het recht worden ontzegd om onderwijs te organiseren. Enkele scholen kregen een bijzondere ondersteuning van de regering en werden voorzien van de modernste technische snufjes. Hun onderwijsmodel, waarbij de leerlingen de dag weliswaar beginnen met een uitgebreide gebedssessie maar daarna toch wetenschappen en wiskunde studeren, wordt schoorvoetend uitgevoerd naar Indonesië en de Filippijnen.

Het contrasteert echter met de meerderheid van de traditionele Koranscholen in Zuidoost-Azië, waar leerlingen niets anders doen dan de Koran uit het hoofd leren, de hele dag lang. Meestal zijn het teksten geschreven in een voor hen onbegrijpelijke taal, het Arabisch, dat dikwijls niet de moedertaal is, noch de tweede taal.

De Organisatie van de Islamitische Conferentie, een onverdachte bron, berekende dat haar ruim vijftig leden gemiddeld slechts 8,5 wetenschappers, ingenieurs en technici hebben per 1.000 inwoners, waar het gemiddelde op 139,3 ligt voor de landen van de OESO, de Organisatie voor Economische Samenwerking en Ontwikkeling. En er moet worden bij gezegd dat sommige van die ‘wetenschappers’ zich al eens bezighouden met de berekening van de temperatuur van de hel, of met de chemische samenstelling van een djin, een ‘geest’ zoals die uit de lamp van Aladin.

Het aantal wiskundigen onder deze 8,5 wetenschappers is verwaarloosbaar. Ook het aantal wetenschappelijke publicaties bevestigt deze schrijnende toestand: zesenveertig moslimlanden samen leveren slechts 1,17% van de publicaties, en twintig Arabische landen samen 0,55%. De Amerikaanse ‘National Science Foundation’ stelde vast dat de helft van de 28 laagst scorende landen op het gebied van wetenschappelijke artikelen behoren tot de Organisatie van de Islamitische Conferentie. Toch is het moeilijk voor te stellen dat Arabische universiteiten met ronkende namen als ‘King Faisal University’ of ‘Prince Sultan University’ te klagen zouden hebben over een gebrek aan financiële middelen.

Een groots verleden

Toch waren het moslimgeleerden die de wiskundige wereld gedurende bijna 700 jaar domineerden. In de 8ste eeuw was er Musa al-Khwarizmi die in zijn ‘Huis der Wijsheid’ in Bagdad niet alleen sterrenkundige tafels opstelde maar ook het oudste leerboek in de rekenkunde, dat in zijn Latijnse vertaling tot in de 16de eeuw zou worden gebruikt, ook in Europa. De verbastering van zijn naam leidde trouwens tot ons woord ‘algoritme’.

Rond ‘onze’ millenniumwisseling was er Al Beruni die in wat nu Oezbekistan heet vele boeken schreef, waaronder een vijftiental over de wiskunde. Sommen van reeksen, algebraïsche vergelijkingen en de verdere ontwikkeling van stellingen van Archimedes: ze trokken allemaal zijn aandacht. De 11de eeuw kende de wellicht grootste wiskundige, dichter en filosoof uit het hele Midden-Oosten, de Pers Omar Khayyam. Hij besefte dat verhoudingen in geometrische figuren niet noodzakelijk tot getallen leiden die steeds als breuken kunnen worden geschreven. Hij had ook het idee om algebra (nog een woord met een Arabische etymologie) en meetkunde te combineren, ten einde vergelijkingen van de vorm x3 + px2 + qx + r = 0 op te lossen. Een tijdgenoot van hem was de eerste om het parallellenpostulaat van Euclides in twijfel te trekken, lang voor Nikolaj Lobatsjevski (Rusland) of Janos Bolyai (Hongarije) dit deden in de 19de eeuw. Het postulaat stelt het nochtans intuïtief voor de hand liggende feit dat door elk punt precies één evenwijdige gaat aan een gegeven rechte.

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Een pagina uit een Latijnse editie van Euclides’ Elementen uit de 14de eeuw. Onderaan de pagina het beroemde parallellenpostulaat.

Een wiskundige ‘Prince of Persia’ was Ulugh-Beg (ca. 1393-1449), een kleinzoon van Ti-moer Lenk (1336-1405), die eerst gouverneur was in Samarkand en daarna de vorst van het gehele rijk. Hij zou een groot belang hechten aan de wetenschap en een enorme astronomische sterrenwacht laten bouwen. Onder zijn bewind werden Koranscholen een soort islamitische academies, waar ook wiskunde en sterrenkunde hoog in het vaandel werden gedragen. Tussen 1408 en 1437 werkten er zowat 70 sterrenkundigen, onder wie Al-Kashi (1380-1429). Al was de astronomie er het belangrijkste studiegebied, toch zou deze laatste bijvoorbeeld ook de decimalen van pi berekenen aan de hand van een 8.050.306.368-zijdig veelvlak. Zijn waarde was pi was 3,141 592 653 589 793 25, wat juist is tot op de 16 decimaal (de 17de moet 4 zijn, niet 5). Zijn ‘totaal nutteloze’ wereldrecord zou stand houden tot 1596 toen de Nederlander Ludolph van Ceulen er 20 berekende.

Al-Kashi berekende ook de sinus van 1° met een grote nauwkeurigheid, en dit 200 jaar voor Kepler. In 1449 werd Ulugh-Beg echter vermoord op zijn weg naar Mekka, door fundamentalisten geleid door zijn eigen zoon. Misschien konden de hovelingen het niet langer dulden dat hij meer aandacht had voor wetenschappelijke dan voor wereldse zaken, en met zijn dood kwam ook een einde aan de wetenschappelijke activiteiten in Samarkand.

Ulugh-Beg

Ulugh-Beg omringd door zijn astronomen. Onder zijn bewind werden Koranscholen een soort islamitische academies, waar wiskunde en sterrenkunde hoog in het vaandel werden gedragen.

Wiskunde wordt zinloos

Ulugh-Begs wiskundige activiteiten bleken de laatste oprisping van de islamitische wiskunde. Tegen het einde van de 15de eeuw zou de invloed van Shaykh Ahmad Sirhindi (1564-1624) verreikende gevolgen hebben. Deze geleerde uit Punjab beschouwde de wiskundigen als ‘idioten’ en hun bewonderaars als ‘nog ergere idioten en de ergste schepsels’. In zijn Maktubat I/266 schreef hij dat de wiskunde ‘totaal zinloos en absoluut nutteloos’ is. De wiskunde kon de mens immers niet van dienst zijn in zijn redding op weg naar het hiernamaals. Het volstond volgens hem om voldoende te kunnen rekenen om de verdeling van een erfenis te bepalen en om de richting te vinden waarin moet worden gebeden.

Sindsdien overheerst deze zienswijze ook bij de ‘Ulama’, de geleerden die de visie van de islam en de sharia bestuderen, met officiële goedkeuring. Opmerkelijk is dat Europa bijna op dat zelfde moment een einde maakte aan zijn lange traditie van neerkijken op de wiskunde. Weliswaar kwam Galileo Galilei (1564-1642) toen nog in moeilijkheden voor zijn wetenschappelijke vindingen, maar ongeveer vanaf ditzelfde tijdperk ontdeed West-Europa zich stilaan van het juk van het religieuze obscurantisme. Sinds de heilige Augustinus hadden vele christenen de wetenschap-om-de-wetenschap afgewezen, in een laatantieke traditie, en achtten ze de studie van de wiskunde alleen zinvol voor zover ze kon bijdragen aan ‘het waarachtige geluk’. Lange tijd werden de negatieve getallen door de katholieke kerk als des duivels beschouwd, waardoor alleen een enkele paus in zijn kamer wel aan wiskunde mocht doen, maar liefst niet de gewone christen.

In het Westen veranderden de tijden echter wel, en uiteindelijk zouden bijvoorbeeld de scholen van de jezuïeten de wiskunde zelfs zeer hoog in het vaandel dragen. Het is alsof rond 1600 het Westen en het Midden-Oosten elkaar kruisten: ze sloegen tegenovergestelde wegen in, vanuit tegenovergestelde vertrekpunten.

Sarhangi

Volgens prof. Reza Sarhangi biedt de wetenschap jongeren uit Iran de mogelijkheid om de godsdienstige bekrompenheid te overstijgen en een internationale carrière uit te bouwen.

Olympiades

Maar het is niet allemaal kommer en kwel. De statistieken, zoals de al aangehaalde OESO-rapporten, zijn voor interpretatie vatbaar. De cijfers van de Wiskundeolympiade, een soort ‘wiskundige Olympische Spelen’, geven een volledig ander beeld. Zo staat het Iraanse team gemiddeld op de 10,9de plaats gedurende het laatste decennium, en nog twee jaar verder terug in de tijd, in 1998, stond het Iraanse team zowaar op de eerste plaats. Turkije bekleedt gemiddeld een 15,6de plaats, ver voor Israël dat slechts een gemiddelde 26ste plaats haalt, en dit in weerwil tot de uitzonderlijke palmares van de Joodse wiskundigen. Ter vergelijking, het Belgische team stond in dezelfde tijdsspanne gemiddeld op de 48,6ste plaats, en Nederland op de 52,4ste plaats. Dit is maar een paar plaatsen hoger dan bijvoorbeeld Marokko. Misschien halen bepaalde westerse landen juist een goed palmares in de ‘Quotation Index’ en andere statistische middelen om de belangrijkheid van onderzoek te meten, omdat moslim wiskundegenieën die op jeugdige leeftijd aan de Olympiade deelnamen, daarna in hun landen gaan werken. De geciteerde Amerikaanse ‘National Science Foundation’ zou ontgoocheld kunnen zijn wanneer ze zou natellen hoeveel in de VS geboren en getogen wetenschappers er het mooie weer maken aan de Amerikaanse wiskundedepartementen.

Wiskunde is bovendien een minder opvallende zonde tegen het halal-beginsel dan het niet dragen van een hoofddoek, het eten van een stuk varkensvlees of het drinken van wijn. Daarom is het verzet tegen de wiskunde van Nigeriaanse islamisten, Aziatische madrassa’s en westerse hardlinermoslims wellicht slechts een achterhoedegevecht, althans volgens Reza Sarhangi, hoogleraar aan het departement Wiskunde van de Towson University (VS). Deze Iraniër organiseert het congressencircuit ‘Bridges: Mathematical Connections in Art, Music, and Science’ en houdt graag voordrachten over ‘islamitische wiskunde’. Bij een glas wijn, waarvan hij fier vertelt dat het Perzië was dat de ‘godendrank’ uitvond, kan hij niet stoppen met het vermelden van redenen waarom ‘wiskunde mooi is’. Voorwaar een statement dat niet erg ‘halal’ is, maar hij stoort er zich niet aan: ‘Zelfs in de Islamistische Republiek zijn de wetenschappen van vandaag te belangrijk geworden, en niemand krijgt de wiskundige geest terug in de wonderlamp.’ Ook niet in die van Aladin.

mardi, 03 août 2010

Les métamorphoses de la Turquie

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Les métamorphoses de la Turquie

 

 

On a maintes fois plagié la célèbre petite phrase « it’s about the economy, stupid ! » (« Ça tourne autour de l’économie, imbécile ! »), prononcée à tour de bras lors de la campagne électorale de Bill Clinton en 1992. Celui qui l’a forgée, dit-on, fut un certain James Carville, l’un des stratèges qui menaient cette campagne à bien. L’idée était d’insister avant tout sur l’économie qui peinait à reprendre son rythme, seule manière de battre Bush Senior. L’idée, simple, a porté ses fruits : Bush-le-Père a été battu.

 

« Cette phrase aurait sa place dans la bouche du premier ministre turc Erdogan » remarquait récemment un diplomate. Les nouvelles ambitions internationales de la Turquie sont de plus en plus souvent commentées dans la presse. Mais on parle beaucoup moins de l’impressionnante croissance économique de la Turquie. A tort car c’est elle qui rythme la marche, c’est elle qui permet au pays de se donner le rôle nouveau qu’il s’assigne. Ce qui se passe actuellement en Turquie pourrait avoir à terme des répercussions importantes sur les relations entre la Turquie et l’Union Européenne.

 

Les relations entre la Turquie et Israël sont au plus bas. On parlait depuis quelque temps déjà de ce recul : l’incident de la flottille en partance vers Gaza a constitué le coup de grâce pour les rapports turco-israéliens, jadis harmonieux. Où ce gel n’est-il qu’une apparence ? Les observateurs les plus avisés constatent qu’il y a un gouffre entre les réactions diplomatiques officielles (abandon de toute coopération militaire, rappels d’ambassadeurs, …) et les réalités économiques. L’espace aérien turc peut certes demeurer fermé à tout exercice militaire pour l’aviation de Tsahal, il n’empêche qu’une commande turque auprès  des arsenaux israéliens n’a pas été annulée, jusqu’à nouvel ordre : elle porte sur une somme de 190 millions de dollars et concerne des aéronefs sans pilote (des drones). Dans une large mesure, la Turquie dépend de l’Etat hébreu pour ses commandes militaires. Il n’existe pas de chiffres exacts mais d’après le « Jane’s Defense Weekly », généralement bien informé, l’ampleur du « commerce militaire bilatéral » tournerait autour de 1,8 milliard des dollars. Seuls les Etats-Unis importent davantage de technologies militaires en Turquie. Entre la Turquie et Israël existe un accord de libre-échange, qui n’a nullement été dénoncé en dépit de l’émotion suscitée par l’attaque israélienne contre la flottille à destination de Gaza. Notre diplomate ajoute : « Affirmer que l’attaque contre la flottille n’a eu aucun effet, c’est aller trop loin ». « La confiance réciproque a pris un coup et, côté israélien, il y a désormais un certaine réticence car on craint que le matériel livré aujourd’hui pourrait un jour être utilisé contre Israël ; mais, globalement, ce que l’on constate, c’est que les relations commerciales se poursuivent comme auparavant ».

 

Impressionnant

 

Tandis qu’on se contente souvent en Europe d’une croissance de 1%, l’économie turque, elle, a crû de 11,4% pour le premier trimestre de cette année. Seule la Chine fait mieux. Il y a dix ans, le déficit budgétaire turc était encore de 16% du PNB et l’inflation se chiffrait à 72%. Aujourd’hui, ce déficit n’est plus  que de 3% et l’inflation de 8%. Trouver des solutions pour résorber cette dernière est l’objectif premier pour les années à venir. La dette publique équivaut à 49% du PNB elle est donc bien moindre que la plupart des dettes publiques des pays de la zone euro, y compris la Belgique. Dans un entretien récemment accordé, Husnu Ozyegin, quasiment l’homme le plus riche de Turquie, rappelle que les paramètres de risque utilisés sur les marchés financiers deviennent toujours plus favorables à son pays.  « Nous nous trouvons à peu près au même niveau que l’Italie et nous faisons nettement mieux que la Grèce », constate-t-il. En juin 2010, les exportations turques étaient de 13% plus élevées qu’en juin 2009, surtout grâce aux demandes de pays comme l’Iran, l’Irak ou la Russie. Les lignes aériennes turques (Turkish Airlines) desserviront bientôt plus de villes irakiennes que de villes françaises. Les lignes aériennes, dont la croissance est la plus rapide, conduisent en Libye, en Syrie ou en Russie, soit vers les pays qui sont désormais les principaux partenaires commerciaux de la Turquie. Pour conclure, encore un chiffre : cette année, la Turquie aura exporté davantage vers la Syrie et l’Iran que vers les Etats-Unis. Valeur totale des échanges : 1,6 milliard de dollars, ce qui équivaut à 200 millions de dollars de plus que le total des exportations turques vers les Etats-Unis.

 

Adhésion à l’UE ?

 

Ce qui se dessine à l’horizon est clair : la Turquie vit actuellement un « miracle économique », surtout grâce au commerce qu’elle entretient avec certains pays d’Orient et avec la Russie. L’ambition turque de jour un rôle régional plus important se traduit en une nouvelle politique internationale, soutenue justement par ce renforcement tous azimuts de l’économie turque. Dans un tel contexte, où se trouve aujourd’hui l’UE et, —doit-on le demander ?–  où en est le projet d’adhésion de la Turquie à cette Union ?

 

Toutes choses prises en considération, les cartes de la Turquie sont plus mauvaises aujourd’hui pour la perspective d’une adhésion qu’elles ne l’étaient en 2004, lorsque le pays fut accepté comme « candidat officiel ». Se porter candidat implique de satisfaire trente-cinq critères, avec une quantité de normes à respecter. La Turquie n’obtient de bons points dans cette épreuve que pour treize de ces critères. Parmi les 22 autres, auxquels elle ne satisfait pas, il y en a douze où la situation est complètement bloquée. Où ce situe les pierres d’achoppement ? Dans une série de dossiers concrets, tels celui de Chypre par exemple. Par ailleurs, il y a en Europe pas mal de résistance à l’adhésion éventuelle de la Turquie. Le Président français Sarközy a des idées claires sur le sujet. Bon nombre d’autres le suivent tacitement. Dans le contexte actuel, le fait que la Turquie ait refusé de voter des sanctions supplémentaires contre l’Iran, à l’instar des Européens et des Américains, lors de la session ad hoc du Conseil de sécurité de l’ONU, n’a pas arrangé les choses. Pour l’Europe technocratique de Bruxelles, le minimum que l’on attend d’un pays candidat, c’est de s’aligner sur les autres Etats de l’Union dans des dossiers aussi sensibles. Lorsque l’Espagne, au début de cette année 2010, a assuré la présidence de l’Union, elle s’affirmait sûre d’obtenir un accord sur quatre critères. Un seul de ces quatre critères a été satisfait, ce qui, au vu de toutes les circonstances, procède d’un véritable miracle !

 

La procession d’Echternach (trois pas en avant, deux pas en arrière) est une véritable course folle, si on la compare au cheminement de la Turquie vers l’UE. La question se pose : la Turquie a-t-elle encore envie d’adhérer ? Pour accumuler les avantages économiques, l’adhésion n’est pas nécessaire. Les ambitions turques actuelles se tournent vers d’autres directions. De plus en plus. Cela signifie que la frontière maritime que constitue le Bosphore devient de plus en plus large.

 

« M. »/ « ‘t Pallieterke ».

(Texte paru dans « ‘t Pallieterke », Anvers, 21 juillet 2010 ; http://www.pallieterke.info/ ).

 

mercredi, 07 juillet 2010

Le nationalisme des "Loups Gris"

Pietro FIOCCHI:

Le nationalisme des “Loups Gris”

Rapport d’un entretien avec Ihsan Barutçu, chef du MHP d’Istanbul

Graue-woelfe.jpgQuand on les voit de près, les “Loups” ne font pas peur. Le MHP (Milliyetçi Hareket Partisi), soit le “Parti du Mouvement National”, lors des législatives de 2007, avait obtenu 14% des voix et 71 sièges au parlement unicaméral turc, qui en compremd un total de 550. Nous avons donc affaire au troisième parti du pays, après l’AKP philo-islamiste, actuellement aux affaires, et le CHP social-démocrate, une organisation politique née plus ou moins en même temps que la république, au début des années 20.

Créé à la fin des années 60 par Alparslan Türkes, le MHP a suscité un intérêt croissant auprès des électeurs turcs depuis ces dernières décennies, à l’exception d’une brève stagnation en 2002. Le sommet fut atteint en 1999 avec son actuel leader Devlet Bahçeli, avec 18% des voix et 129 sièges. Ce parti ne relève donc pas du folklore mais constitue une réalité politique et sociale qui n’a rien de marginal comme on pourrait le croire. Malheureusement, son site officiel (www.mhp.org.tr) ne présente aucun texte en une autre langue que le turc. Ceux qui veulent glaner plus d’information sur ce mouvement doivent se rabattre sur Wikipedia ou sur des blogs qui, généralement, donnent de ce parti une description apocalyptique.

Nous, journalistes italiens du quotidien “Rinascita” (Rome), sommes toujours d’emblée sceptiques face aux étiquettes de tous genres et allergiques aux lieux communs; par conséquent, nous sommes allés trouver les hommes du MHP, qui furent, de leur côté, bien contents de susciter l’intérêt d’une fraction de la presse italienne. Nous avons été reçus avec tous les honneurs au bureau d’Istanbul pour avoir un long entretien avec le leader local, Ihsan Barutçu.

Nous n’avons attendu que quelques minutes dans l’antichambre: laps de temps pendant lequel, un fonctionnaire du parti a tenu à faire une précision. Cet homme était évidemment conscient du manque d’informations dont nous disposions sur son parti: il a tenu dès lors à souligner que les Européens avaient l’habitude de faire l’équation entre le nationalisme et le racisme. Il nous a alors donné deux exemples de leaders, que nous apprécions aussi: Hugo Chavez et Evo Morales, chez qui l’idée nationaliste n’a rien à voir avec le racisme mais s’exprime sous la forme d’un socialisme national qui, ajoutons-nous, a eu des effets bénéfiques sur leurs pays, le Venezuela et la Bolivie. Après cette précision, il nous a assuré que son parti n’avait pas de base ethnique mais était ouvert à tous les citoyens de Turquie, Kurdes compris.

Dès que nous nous sommes trouvés face à face avec Ihsan Barutçu, en présence de ses collaborateurs Aydin Çetiner et Mert Toker, qui jouait le rôle d’interprète, notre première question fut spontanée: “Qu’est-ce que le MHP?”. La réponse fut concise: “Notre parti représente la tradition et l’avenir du pays”.

Justement, à props d’avenir, nous étions forcément intéressés de savoir comment ils voyaient le futur de la Turquie dans la perspective d’une adhésion à l’UE. Les membres du MHP sont convaincus que Bruxelles applique, à l’endroit d’Ankara, une politique de deux poids deux mesures, qui est somme toute une attitude dépourvue de clarté. Quant aux militants du MHP, ils demeurent intéressés à entrer dans l’Europe: l’adhésion est un pas qu’ils sont prêts à franchir mais uniquement s’ils peuvent conserver intactes leurs propres traditions, leur culture, leur unité et leur indépendance... Ce qui signifie, ajoutons-nous, adhérer à l’UE sans que Bruxelles ne leur impose trop de conditions? Exactement, nous répondent-ils. Même si l’adhésion est un objectif convoité par les Turcs, les “Loups gris” admettent qu’ils restent perplexes devant l’UE et émettent des doutes sur le mode d’économie qu’elle pratique: ils nous donnent les exemples emblématiques de la Grèce et du Portugal. L’assemblée européenne a toutes les allures d’un club de nations chrétiennes, alors que les Turcs sont musulmans et tiennent à le souligner, ce qui implique bien entendu qu’ils ont des traditions et des valeurs propres.

Dans ce cas, cherchons-nous à comprendre, pourquoi cette UE apparait-elle si importante aux yeux des Turcs? Ne vaudrait-il pas mieux qu’ils concentrent leurs efforts pour adhérer à une éventuelle union des pays turcophones? De fait, beaucoup, entre l’Anatolie et l’Asie centrale, ont entendu parler de cette hypothèse. La Turquie, nous disent nos interlocuteurs du MHP, est située entre l’Orient et l’Occident: elle doit donc regarder dans les deux directions.

Nous confrontons alors nos interlocuteurs du MHP au parcours d’obstacles qui les sépare du but, à commencer par deux cas difficiles: 1) la reconnaissance de ce que nous appelons en Europe le génocide arménien et 2) la question de Chypre et de la République turque du nord de l’île, que les Européens considèrent comme une zone occupée militairement et non pas comme une entité étatique normale. A la première question, nos interlocuteurs nous répondent comme le font généralement tous les Turcs, sans distinction d’obédience politique: “nous ne sommes pas responsables des événements survenus au cours de la première guerre mondiale et, dans tous les cas de figure, il n’y a pas eu de génocide”.

Que nous proposent-ils dès lors pour nous faire accepter leurs arguments? Ils nous expliquent qu’en Turquie vivent de nombreux Arméniens, dont beaucoup d’étudiants, et certains d’entre eux sont même candidats aux élections sur les listes du MHP. Ces Arméniens-là rejettent la théorie du génocide. Quoi qu’il en soit, il faut, disent-ils, qu’une commission d’historiens fasse les recherches adéquates et trouvent une solution. Ce n’est pas une tâche qui doit être dévolue aux membres du parlement. Pour le MHP, la question arménienne relève de mobiles politiques et ne se base pas sur des faits historiques.

 Sur Chypre également, la position du parti est celle que partage en général la plupart des Turcs: dans l’île vivent deux sociétés différentes, l’une est turque et l’autre est grecque; les uns comme les autres ont des droits égaux. L’UE ne peut affirmer que Chypre appartient aux seuls Grecs. Le MHP attend des Européens une politiques plus objective. Ils considèrent que l’intervention militaire turque de 1974 relève d’une mission légitime de pacification.

 Et le nucléaire iranien? Qu’en dit le MHP? La réponse est simple: si Téhéran a des visées belliqueuses, le parti s’oppose au nucléaire iranien car il est par définition hostile aux armes atomiques. Il suffit de se rappeler les tragédies d’Hiroshima et de Nagasaki. Si, en revanche, les Iraniens souhaitent utiliser l’atome à des fins civiles, le MHP ne formule aucune critique. Tous les pays ont le droit de développer l’énergie nucléaire comme ils l’entendent.

 Pour terminer l’entretien, nous demandons quelques explications sur ce qu’entendent les militants du MHP par “pantouranisme”. Nos interlocuteurs demeurent laconiques. C’est une longue histoire qui a ses origines dans la mythologie antique. Le thème du pantouranisme fera l’objet d’un futur débat à bâtons rompus.

 Pietro FIOCCHI.

( p.fiocchi@rinascita.eu ).

(article paru dans “Rinascita”, Rome, 15 juin 2010).

(Site de “Rinascita”: http://www.rinascita.eu ).

mardi, 06 juillet 2010

La Turquie tourne le dos à l'Occident

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Bernhard TOMASCHITZ:

La Turquie tourne le dos à l’Occident

L’amitié étroite entre la Turquie et Israël est un fait politique qui relève désormais du passé. Ankara envisage des sanctions contre l’Etat sioniste à la suite de l’attaque israélienne contre la flotille de la paix qui faisait route vers Gaza. Si Israël refuse de satisfaire à l’exigence turque de mettre en oeuvre une commission d’enquête internationale, le gouvernement turc songe à réduire voire à rompre les relations diplomatiques et les coopérations économiques et militaires. De même, la résistance turque au sein du Conseil de sécurité de l’ONU contre tout raffermissement des sanctions contre l’Iran a conduit à un refroidissement considérable du climat entre Ankara, d’une part, Jérusalem et Washington, d’autre part. Président de la commission de politique étrangère du Parlement turc, Murat Mercan explique ce soutien apporté à Téhéran: “La Turquie a des liens historiques, culturels et religieux d’une grande profondeur temporelle avec l’Iran. En d’autres mots: les Iraniens sont non seulement nos voisins mais aussi nos amis et nos frères”.

A Washington, la nouvelle orientation de la Turquie vers la Syrie et vers l’Iran (deux “Etats voyous selon les Etats-Unis) suscite une vigilance toute particulière. Car, en fin de compte, la Turquie est un allié particulièrement important des Etats-Unis pour assurer la pacification de l’Irak. Parce que le gouvernement turc a décidé de ne pas participer aux sanctions, Robert Gates, le ministre américain des affaires étrangères, s’est déclaré “déçu”. Gates avait toutefois une explication toute faite: c’est l’UE qui est responsable de cet état de choses, vu le gel des négociations entre l’Europe et la Turquie en vue de l’adhésion de ce pays à l’Union. Les Etats-Unis mettent une fois de plus la pression sur l’Union européenne pour qu’elle accepte le plus rapidement possible la Turquie en son sein. Et cette pression ira croissant pour autant qu’Ankara n’exagère pas dans son soutien à Téhéran. Au Congrès américain, nous entendons désormais des voix qui réclament une attitude de plus grande fermeté à l’encontre d’Ankara: “Il y aura un prix à payer si la Turquie maintient son attitude actuelle et se rapproche davantage de l’Iran, tout en se montrant hostile à Israël”, a menacé le Républicain Mike Pence. Quant à la Démocrate Shelley Berkley, elle s’est adressé aux Turcs en ces termes: “Ils ne méritent pas de devenir membres de l’UE, tant qu’ils ne commencent pas à se comporter comme les peuples européens et tant qu’ils ne cessent pas d’imiter l’Iran”.

Désormais, la Turquie tourne donc ses regards vers le Proche Orient. Mais l’adoption de cette politique n’est pas vraiment une surprise. De fait, le premier ministre turc Recep Tayyip Erdogan et son parti gouvernemental, l’AKP de tendance islamiste, se sentent plus proches du monde musulman que des Etats-Unis ou de l’Europe. A ce sentiment d’affinité s’ajoute le concept de “profondeur stratégique”, élaboré dès 2001 par l’actuel ministre turc des affaires étrangères, Ahmed Davutoglu. Selon ce concept, la Turquie doit retrouver sa propre “identité historique et géographique”, démarche où l’Empire ottoman constitue la principale référence. Davutoglu considère son pays, la Turquie, comme un “Etat clef”, situé sur le point de rencontre de l’Europe, de l’Asie et de l’Afrique car, en effet, la Turquie est tout à la fois partie des Balkans, du Caucase, de l’espace pontique (Mer Noire), du Proche Orient et de l’espace maritime du bassin oriental de la Méditerranée, ce qui implique, ipso facto, qu’elle doit s’efforcer d’entretenir un “rapport équilibré avec tous les acteurs globaux et régionaux”.

Cette notion de “rapport équilibré” est très visible dans les relations qu’entretient aujourd’hui la Turquie avec la Syrie. Ces relations se sont remarquablement détendues, depuis que la Turquie essaye de jouer un rôle médiateur dans le conflit israélo-syrien. Avant ce travail de médiation, on évoquait fort souvent une possible “guerre pour l’eau” entre les deux pays redevenus amis, parce que la Turquie contrôlait le cours supérieur de l’Euphrate.

Quant à la “profondeur stratégique”, elle constitue le pendant en politique étrangère de l’islamisation de la Turquie en politique intérieure. La notion de “profondeur stratégique” et l’islamisation constituent deux modes de rupture avec le kémalisme, idéologie déterminante de la Turquie depuis la fondation de la République en 1923. Heinz Kramer, politologue oeuvrant à la “Stiftung Wissenschaft und Politik” de Berlin (“Fondation Science et Politique”), évoque, dans l’une de ses études, la rupture fondamentale que cette idée de “profondeur stratégique” apporte dans la praxis turque en politique étrangère: “La domination mentale exercée jusqu’ici par l’exclusivité de l’orientation pro-occidentale, considérée comme l’un des piliers de l’identité républicaine en gestation, se trouve relativisée. La Turquie, dans cette perspective, ne se perçoit plus comme un Etat en marge du système européen mais comme le centre d’une ‘région spécifique’, pour l’ordre de laquelle Ankara doit assumer une responsabilité ou une co-responsabilité politique”.

Conséquence de cette nouvelle vision en politique étrangère et de cette nouvelle conscience politique: la Turquie essaye de se positionner comme un acteur plus déterminant qu’un simple pays assurant le transport d’énergie. En juillet 2009, la Turquie a signé l’accord sanctionnant la construction du gazoduc Nabucco qui devra acheminer le gaz naturel de la région caspienne ou de l’Iran vers l’Europe centrale: cette signature est un véritable coup de maître politique. Morton Abramowitz et Henri J. Barkey, tous deux actifs pour les “boîtes à penser” américaines, écrivent à ce propos dans la très influente revue “Foreign Affairs”: “Le gazoduc Nabucco sera-t-il un jour construit? On demeure dans l’incertitude. Tant le coût de son installation que la question de savoir s’il y aura suffisamment de gaz naturel à disposition pour le remplir, sont des éléments qui restent à élucider (...). Mais le projet de gazoduc a d’ores et déjà augmenté l’influence de la Turquie aux yeux des pays de l’UE, animés par une perpétuelle fringale d’énergie”. Avec la clef énergétique, la Turquie pourrait bien s’ouvrir la porte de l’UE.

Bernhard TOMASCHITZ.

(article paru dans “zur Zeit”, Vienne, n°25-26/2010; trad. franç.: Robert Steuckers).

 

samedi, 19 juin 2010

Israël s'inscruste en Irak

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Israël s’incruste en Irak
par Gilles Munier
(Afrique Asie – juin 2010)

Israël s’est vite rendu compte que les Etats-Unis perdraient la guerre d’Irak, et que les projets d’établissement de relations diplomatiques et de réouverture du pipeline Kirkouk- Haïfa promis par Ahmed Chalabi, étaient illusoires. Ariel Sharon a alors décidé, selon le journaliste d’investigation Seymour Hersh, de renforcer la présence israélienne au Kurdistan irakien afin que le Mossad puisse mettre en place des réseaux qui perdureraient dans le reste du pays et le Kurdistan des pays voisins, quelle que soit l’issue des combats.

Programme d’assassinats

   La participation israélienne à la coalition occidentale ayant envahi l’Irak est loin d’être négligeable, mais demeure quasiment secrète. Les Etats-Unis ne tiennent pas à ce que les médias en parlent, de peur de gêner leurs alliés arabes et de crédibiliser leurs opposants qui dénoncent le "complot américano-sioniste" au Proche-Orient.

   Des Israéliens ne sont pas seulement présents sous uniforme étasunien, sous couvert de double nationalité, ils interviennent dès 2003 comme spécialistes de la guérilla urbaine à Fort Bragg, en Caroline du Nord, centre des Forces spéciales. C’est là que fut mise sur pied la fameuse Task Force 121 qui, avec des peshmergas de l’UPK (Talabani), arrêta le Président Saddam Hussein. Son chef, le général Boykin se voyait en croisé combattant contre l’islam, « religion satanique ». C’était l’époque où Benyamin Netanyahou se réunissait à l’hôtel King David à Jérusalem avec des fanatiques chrétiens sionistes pour déclarer l’Irak : « Terre de mission »... En décembre 2003, un agent de renseignement américain, cité par The Guardian, craignait que la "coopération approfondie" avec Israël dérape, notamment avec le " programme d’assassinats en voie de conceptualisation ", autrement dit la formation de commandos de la mort. Il ne fallut d’ailleurs pas attendre longtemps pour que le premier scandale éclate. En mars 2004, le bruit courut que des Israéliens torturaient les prisonniers d’Abou Ghraib, y mettant en pratique leur expérience du retournement de résistants acquise en Palestine. Sur la BBC, le général Janis Karpinski, directrice de la prison révoquée, coupa court aux dénégations officielles en confirmant leur présence dans l’établissement pénitentiaire.

   La coopération israélo-américaine ne se développa pas seulement sur le terrain extra-judiciaire avec la liquidation de 310 scientifiques irakiens entre avril 2003 et octobre 2004, mais également en Israël où, tirant les leçons des batailles de Fallujah, le Corps des ingénieurs de l’armée étasunienne a construit, dans le Néguev, un centre d’entraînement pour les Marines en partance pour l’Irak et l’Afghanistan. Ce camp, appelé Baladia City, situé près de la base secrète de Tze’elim, est la réplique grandeur nature d’une ville proche-orientale, avec des soldats israéliens parlant arabe jouant les civils et les combattants ennemis. D’après Marines Corps Time, elle ressemble à Beit Jbeil, haut lieu de la résistance du Hezbollah à l’armée israélienne en 2006…

Les « hommes d’affaire » du Mossad

   En août 2003, l’Institut israélien pour l’exportation a organisé, à Tel-Aviv, une conférence pour conseiller aux hommes d’affaires d’intervenir comme sous-traitants de sociétés jordaniennes ou turques ayant l’aval du Conseil de gouvernement irakien. Très rapidement sont apparus en Irak des produits sous de faux labels d’origine. L’attaque par Ansar al-Islam, en mars 2004, de la société d’import-export Al-Rafidayn, couverture du Mossad à Kirkouk, a convaincu les « hommes d’affaires » israéliens qu’il valait mieux recruter de nouveaux agents sans sortir du Kurdistan, mais elle n’a pas empêché les échanges économiques israélo-irakiens de progresser. En juin 2004, le quotidien économique israélien Globes évaluait à 2 millions de dollars les exportations vers l’Irak cette année là. En 2008, le site Internet Roads to Iraq décomptait 210 entreprises israéliennes intervenant masquées sur le marché irakien. Leur nombre s’est accru en 2009 après la suppression, par le gouvernement de Nouri al-Maliki, du document de boycott d’Israël exigé des entreprises étrangères commerçant en Irak, véritable aubaine pour les agents recruteurs du Mossad.

 

Israele impietantata in Iraq

Israele impiantata in Iraq

di Gilles Munier

Fonte: eurasia [scheda fonte]


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Israele impiantata in Iraq

Israele ha capito subito che gli Stati Uniti avrebbero perso la guerra in Iraq, e che i progetti di stabilire relazioni diplomatiche e la promessa della riapertura dell’oleodotto Kirkuk-Haifa fatte da Ahmed Chalabi, erano illusori. Ariel Sharon ha deciso, secondo il giornalista investigativo Seymour Hersh, di rafforzare la presenza israeliana nel Kurdistan iracheno affinché il Mossad stabilisca reti che si estendono per tutto il resto del paese e tra i curdi dei paesi vicini, a prescindere dal risultato del conflitto.
Programma di assassinii

La partecipazione di Israele alla coalizione occidentale che ha invaso l’Iraq è tutt’altro che trascurabile, ma rimane quasi un segreto. Gli Stati Uniti non tengono conto a ciò di cui i media parlano, per paura di interferire con i loro alleati arabi e di dare credibilità a loro avversari che denunciano il “complotto sionista-americano” in Medio Oriente.

Gli israeliani non sono presenti solo con l’uniforme degli Stati Uniti con cui, sotto la copertura della doppia cittadinanza, intervengono dal 2003 come specialisti nella guerra urbana a Fort Bragg, Carolina del Nord; il centro delle Forze Speciali. Qui è stata istituita la famosa task force 121 che, con i peshmerga del PUK (Talabani), catturò il presidente Saddam Hussein. Il suo leader, il generale Boykin, si vedeva un crociato contro l’Islam, “religione satanica”. Fu allora che Benjamin Netanyahu incontrò al King David Hotel di Gerusalemme, i fanatici cristiano-sionisti per dichiarare l’Iraq “Terra di Missione” … Nel dicembre 2003, un ufficiale dell’intelligence statunitense, citato da The Guardian temeva che la “cooperazione su vasta scala” con Israele deragliasse, in particolare con il “programma di omicidi in via di concettualizzazione“, cioè la formazione di squadroni della morte. Non bisognò neppure attendere molto perché il primo scandalo scoppiasse. Nel marzo 2004, si diffuse la voce che gli israeliani torturavano i prigionieri di Abu Graib, anche mettendo in pratica l’esperienza acquisita per piegare la resistenza in Palestina. Sulla BBC, il generale Janis Karpinski, la dimessa direttrice del carcere tagliò corto con le smentite ufficiali, confermando la loro presenza nella prigione.

La cooperazione israelo-statunitense non si sviluppò solo sul terreno della liquidazione extragiudiziale di 310 scienziati iracheni, tra aprile 2003 e ottobre 2004, ma anche in Israele, imparando dalle battaglie di Falluja, il Corpo dei genieri dell’Esercito USA costruì, nel Negev, un centro di addestramento per i marines diretti in Iraq e in Afghanistan. Il campo, chiamato Baladia City, è situato vicino alla base segreta di Tze’elim, che è la replica a grandezza naturale di una città mediorientale, con i soldati israeliani di lingua araba che giocano il ruolo di civili e combattenti nemici. … Secondo il Marines Corps Time, assomiglia a Beit Jbeil, il centro della resistenza di Hezbollah all’esercito israeliano, nel 2006…
Gli “uomini d’affari” del Mossad

Nell’agosto 2003, l’Istituto israeliano per l’esportazione organizzò a Tel Aviv una conferenza per consigliare agli imprenditori d’agire come subappaltatori di imprese giordane o turche, ottenendo l’approvazione del Consiglio di governo iracheno. Molto rapidamente emersero in Iraq dei prodotti sotto false etichette. L’attacco da parte di Ansar al-Islam, nel marzo 2004, alla società di import-export Al-Rafidayn, copertura del Mossad a Kirkuk, ha convinto gli “imprenditori” israeliani che era meglio reclutare nuovi agenti senza allontanarsi dal Kurdistan, ma ciò non ha impedito il progredire degli scambi economici israelo-iracheni. Nel giugno 2004, il quotidiano economico israeliano Globes stimava in due milioni di dollari le esportazioni in Iraq, per quell’anno. Nel 2008, il sito web Roads to Iraq contava 210 imprese israeliane che partecipavano, occultate, al mercato iracheno. Il loro numero è aumentato nel 2009, dopo la soppressione, da parte del governo di Nouri al-Maliki, del documento di boicottaggio d’Israele, richiesto dalle aziende straniere che operano in Iraq, una vera manna per gli agenti reclutatori del Mossad.

Fonte: Afrique Asie Giugno 2010

Traduzione di Alessandro Lattanzio

jeudi, 17 juin 2010

La Turchia progetta un mercato comune con Siria, Libano e Giordania

La Turchia progetta un mercato comune con Siria, Libano e Giordania

di Carlo M. Miele

Fonte: osservatorioiraq [scheda fonte]



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Con la prospettiva di una membership europea che si va allontanando sempre di più, la Turchia inizia a pensare concretamente a un’alternativa nel mondo arabo.


Si spiega anche così il progetto di un mercato comune nella regione, annunciato ieri a Istanbul nel corso del meeting arabo-turco.

Da parte turca il progetto – preannunciato qualche mese fa – punta a rilanciare il volume dei commerci con il mondo arabo, fermo a circa 25 miliardi di euro per anno.

Nonostante lo sviluppo registrato dall’economia della repubblica kemalista negli ultimi anni, infatti, i commerci con la regione rappresentano solo una piccola parte degli scambi che avvengono invece con l’Europa, che resta il principale partner commerciale della Turchia.

Il problema dovrebbe essere superato con la zona di libero scambio, che inizialmente dovrebbe comprendere la Siria, il Libano e la Giordania, oltre alla stessa Turchia.

Tra i quattro paesi dovrebbero essere stabilite delle facilitazioni anche in materia di visti.

Leadership turca     


Col nuovo progetto la Turchia intende rilanciare anche il proprio ruolo economico nella regione, dopo essere riuscita a rilanciare quello diplomatico.

Del resto, come hanno sottolineato diversi analisti citati dalla Bbc, il connubio tra politica estera ed economia sta diventando una caratteristica della gestione del governo guidato da Recep Tayyip Erdogan, che nei sue frequenti viaggi ufficiali all’estero si fa sempre accompagnare da un una importante delegazione di imprenditori.

In passato il governo guidato dal Partito di giustizia e sviluppo (Akp, di ispirazione islamica) ha sostenuto con forza il processo di adesione della Turchia alla Ue, che – ribadisce Erdogan – resta tuttora la priorità nell’agenda politica turca.

Tuttavia, poco è stato fatto dall’ottobre 2005 (quando sono stati avviati i negoziati tra le due parti) a oggi. I rapporti tra Ankara e Bruxelles si sono anzi raffreddati, a causa della volontà turca di non riconoscere Cipro e in seguito agli ostacoli posti da alcuni membri chiave dell’Unione, come Francia e Germania.

In questo lasso di tempo, la Turchia ha cominciato a guardare con sempre più insistenza a Oriente e al mondo arabo e musulmano. E l’idea di creare una zona di libero scambio con i vicini regionali assomiglia tanto alla ricerca di un’alternativa.

mardi, 15 juin 2010

Lancinante rupture avec l'Occident

Lancinante rupture avec l'occident

20090103_DNA017062.jpgUn agréable périple familial dans notre cher Hexagone, — on n'écrit plus la Doulce France, — m'a permis de suivre, l'actualité grâce aux quotidiens régionaux. Et durant la semaine écoulée, ils évoquaient les péripéties consécutives à la participation de quelques Français à l'opération turque de solidarité avec Gaza.

Le mercredi 2 juin, on pouvait lire et partager l'inquiétude du grand quotidien de Touraine "la Nouvelle République". Gros titre en première page : "Gaza : sans nouvelles des huit Français".

Le vendredi 4 juin "La République des Pyrénées" donnait quelques rassurantes précisions : "Six Français de retour". Tout est bien qui finit bien. Il s'agit de cinq membres du "Comité de bienfaisance et de secours aux Palestiniens" (CBSP) : Salah Berbagui, Mounia Cherif et Miloud Zenasni débarqués à Roissy vers 16 h 45 d'un vol de la compagnie Turkish Airlines, en provenance d'Istanbul puis de Ahmed Oumimoun et Mouloud Bouzidi. Le sixième, Thomas Sommer-Houdeville appartient à la "Campagne civile internationale pour la protection du peuple palestinien" (CCIPPP).

Enfin le samedi 5 juin, le grand quotidien de Marseille "La Provence" (1) saluait le retour chez lui et les déclarations de l'enfant du pays Miloud Zenasni. Notons cependant que ces nouvelles, les seules supposées informer le lecteur de ce qui se passe à l'Etranger apparaissent seulement en page 32 rubrique "Méditerranée-Monde", l'Europe n'existant pas.

Ne nous attardons pas aux évaluations d'origine américaine à propos du Comité de bienfaisance et de secours aux Palestiniens (CBSP). La CIA ose prétendre depuis août 2003 que cette organisation doit être considérée comme "entité terroriste" car elle "apporte son soutien au Hamas et forme son réseau de collecte de fonds en Europe".

En même temps, et comme je m'y attendais un peu, ma modeste chronique du 2 juin a déclenché un certain nombre de réactions . Or, elles répondent à ce que je n'ai pas écrit. Comme elles se montrent outrancières, se veulent insultantes et/ou tombent sous le coup de la loi (2), et puisque, par ailleurs, elles n'apportent aucune information je ne les installe pas sur ce site.

Je ne cherche même pas à croiser le fer, renvoyant simplement mes lecteurs habituels à ce que cette chronique exprime effectivement.

Et je me contenterais aujourd'hui de préciser certains contours de mon propos personnel, soulignant d'abord quelques réalités.

Les deux questions les plus importantes à mes yeux, dans cette affaire, ne résultent ni des gens qui hurlent avec les loups, ce que je m'efforce de ne jamais faire, ni de ceux qui se disent "pour" avec la peau des autres mais des faits objectifs nouveaux ou confirmés.

Première constatation : la politique extérieure européenne n'existe toujours pas. Lady Ashton reste strictement inconsistante et on peut croire qu'elle a été choisie pour remplir cette mission, qu'elle accepte. Chacun de nos pays persiste dans un repli matérialiste sur lui-même, faussement confortable. On refuse de voir les dangers qui s'accumulent dans le monde, qui justifieraient le renforcement des moyens et de l'esprit de défense. Nos soldats sont engagés en Afghanistan dans une guerre. Les dirigeants et commentateurs parisiens agréés paraissent s'en moquer. L'héroïsme, le devoir, la croisade n'appartiennent pas à leur registre. Ils évoquent seulement les morts et les blessés, comme s'il s'agissait de statistiques des accidents de la route. Cela dit tout.

Deuxième fait majeur : la rupture de l'alliance turco israélienne.

Il ne s'agit ni de louer ici ni de stigmatiser quiconque. Observons.

Contrairement ce que deux ou trois correspondants semblent croire, je ne cherche d'ailleurs à développer aucun sentiment particulièrement hostile à la Turquie. Militant d'abord pour l'exactitude, je me contente de considérer que l'Europe ne saurait intégrer cette nation dans le projet que représente au départ son "Union" (3). Et d'autre part je préfère la voir s'occuper du Proche Orient que du sud est européen.

Je souligne d'autre part qu'il est un peu extravagant, quand même, qu'à la fois, ce pays occupe illégalement un territoire européen à Chypre, qu'il refuse de reconnaître le génocide arménien, et prétende, en même temps, s'ériger en défenseur du droit des peuples.

Son alliance stratégique avec Israël date des années 1950 et non des années 1990 comme on le lit souvent. À Ankara, les équipes actuellement au pouvoir semblent, depuis 2003, souhaiter la rupture entre les deux vieux partenaires et désirer renforcer leur position aux côtés du monde arabe. La tradition kémaliste cherchait à s'en séparer radicalement. Cela révolutionne donc à terme toute la région. Rappelons que jusqu'ici l'OTAN tenait la Turquie pour son très précieux, loyal et fidèle allié. Les Israéliens se trouveront dans l'obligation de changer, eux aussi, leurs orientations. Ils ne pourront plus faire, comme par le passé, l'apologie systématique outrancière de leur ancien ami désormais infidèle. Sans aller jusqu'à une repentance publique, contraire à leur esprit traditionnel de "peuple à la nuque raide", ils devront peut-être revenir sur certains paradigmes.

Doit-on sérieusement se féliciter que la Turquie aurait "retrouvé une âme", comme le dit un de mes contradicteurs anonymes, plus logique que d'autres ?

Quand d'ailleurs l'aurait-elle perdue ?

Ce qui me passionnerait ce serait de voir l'Europe retrouver son âme !

Et sans recourir à de tels hyperbolismes il s'agit de savoir, pour les citoyens et les contribuables français, à quoi tend concrètement la politique de la France. Lorsque l'on constate les soutiens matériels, les subventions et les encouragements que la république accorde au développement des communautarismes et de l'islamisme sur le territoire de l'Hexagone on se doute bien qu'il ne s'agit pas pour elle de les combattre vraiment sur la scène internationale.

Seuls et sans moyens bien considérables des policiers intelligents et courageux mènent une lutte acharnée et efficace, quoique discrète, contre le terrorisme : combien de temps les "braves gens" dormiront-ils en paix grâce à eux ?

Certes on peut prends acte de la logique idéaliste de ceux qui "voudraient que le monde vive dans la paix et la justice" : on la comprend, mais on ne doit aucunement succomber à ce doux rêve messianique. La paix ne se définit raisonnablement que par l'intervalle séparant deux conflits. Votre serviteur souhaite seulement que l'armée de son pays puisse repousser "les Barbares qui veulent la guerre". J'admire beaucoup, j'ose l'avouer, la pacifique nation suisse de se préparer constamment à affronter des conflits dont, par là même, elle écarte l'hypothèse. Ces Gaulois ont bien retenu la devise de l'Empire romain : "si tu veux la paix, prépare-toi à la guerre".
JG Malliarakis

Apostilles
  1. Ce titre est lui-même issu de l'absorption du "Méridional la France", bien connu des amis de l'Algérie française, par le "Provençal" de Gaston Deferre.
  2. Pour situer la hauteur du débat, je note qu'un correspondant anonyme osant lui-même se présenter comme "Grec", me targue d'être "un juif de Salonique", et non un "Grec orthodoxe". Je dois dire que le trait m'amuse. Il appelle de ma part les précisions suivantes. Les Thessaloniciens israélites portent le plus souvent des noms d'apparence espagnole (Daninos, Moreno, etc.). Ils parlaient autrefois le judéo-espagnol ou ladino. Ils sont considérés comme les descendants des Juifs expulsés d'Espagne en 1492. Leurs ancêtres ont été accueillis et protégés par les Sultans. Aucun Grec n'imaginerait que mon patronyme, typiquement crétois, puisse se rattacher à cette histoire. D'ailleurs je constate que les organismes de bienfaisance juifs qui utilisent volontiers des fichiers onomastiques ne me sollicitent pas. Enfin, quoique partageant chaque année la joie pascale et recevant les vœux du métropolite grec orthodoxe de Paris, je ne ressortis pas de sa juridiction ecclésiastique, appartenant à la "communauté orthodoxe française de la Sainte Trinité" au sein de laquelle cohabitent pacifiquement toutes les opinions politiques françaises.
  3. C'est le propos de mon livre sur "La Question turque et l'Europe"
Vous pouvez entendre l'enregistrement de cette chronique
sur le site de
Lumière 101

vendredi, 11 juin 2010

Irak 1941: la révolte de Rachid Ali contre les Britanniques

Arab%20Leagion%20Iraq.jpgIrak 1941: la révolte de Rachid Ali contre les Britanniques

 

d'après une étude de Marzio Pisani

 

En 1941, l'Irak, nominalement indé­pendant, était de fait un protectorat bri­tannique. La domination impérialiste an­glaise en Irak se basait sur une pré­sence militaire, sur le conditionnement politique et sur l'exploitation écono­mique. La présence militaire consistait en deux bases aériennes, l'une à Chaï­ba, près de Bassorah au Sud, et l'autre à Habbaniya près de Bagdad. La RAF y entretenait 88 appareils. Une troisième base était en construction à Routbah. Les Anglais avaient permis que se con­stituent une armée et une police ira­kiennes, dotées d'avions. Ces troupes étaient sensées défendre les in­térêts de l'Empire. Elles allaient se ré­véler instru­ments du nationalisme arabe, sans que les Anglais ne s'en aperçoivent à temps. Les Britanniques avaient imposé à leur marionette ira­kienne, le Cheik Abdoul Ila, un traité qui autorisait les troupes anglaises à circuler librement partout sur le terri­toire irakien, inclus d'office dans le Commonwealth. Mais les élé­ments d'élite de la nation irakienne n'ac­ceptaient que très difficilement cette mi­se sous tutelle: la politique pro-arabe de l'Axe les séduisait. Les diplo­mates ita­liens et allemands en poste dans le pays l'infiltrèrent idéologique­ment, é­bran­lant le prestige des Britan­niques dans toute la région.

 

Sur le plan économique, le capitalisme anglo-saxon exploitait sans vergogne les ressources pétrolières du pays par le biais de ses compagnies pétrolières. A la déclaration de guerre, cette arro­gance conduisit les Irakiens à rompre les relations diplomatiques avec l'Alle­magne et l'Italie  —sous pression britan­nique—  tout en refusant de dé­clarer la guerre à l'Axe. De plus, l'Irak offre l'a­sile au Grand Moufti de Jéru­salem, grand propagandiste de la poli­tique ger­mano-italienne en Islam. Le 1er avril 1941, le groupe germanophile dit de la «Place d'Or», rassemblé autour de Ra­chid Ali, prend le pouvoir par un coup d'Etat. L'ensemble des forces ar­mées irakiennes, armée de terre, avia­tion et police, se joint au nouveau ré­gime. Les Anglais réagissent très vite pour re­mettre en place leur marion­nette qui avait fui à l'étranger. Le porte-avions Her­mes se porte dare-dare dans les eaux du Golfe Persique et la 20ième Bri­gade Indienne, accompagnée d'un ré­giment d'artillerie, débarque à Basso­rah. Devant cette violation du territoire irakien, Rachid Ali organise l'insurrec­tion fin avril. Les forces ar­mées ira­kiennes comptaient quatre di­visions d'infanterie, quelques unités mécani­sées à faibles effectifs dispersés dans tout le pays et de 60 avions, des vieux modèles servis par des équipages inex­périmentés.

 

Fin avril, début mai, les Irakiens arrê­tent les sujets britanniques résidant sur leur territoire et dirigent les flux de pétrole vers la Syrie de Vichy. Le 30 avril, ils lancent une attaque contre la ba­se de Habbaniya. La police de Rout­bah verrouille la ville et la population de Bassorah s'insurge contre les Anglo-Indiens et amorcent une guerrilla aux environs de la cité. Surpris, les Anglais doivent contre-attaquer par la Trans­jordanie, appuyés par les chars de la 1ière Division de Cavalerie (la «Hab­for­ce»), la fameuse Légion Arabe et quel­ques unités jordaniennes. Des renforts sont appelés d'Egypte et des Indes. Avec l'appui de la RAF, la Hab­force re­prend Routbah et brise l'encer­cle­ment de Habbaniya. A Al-Fal­loudjia, la ba­tail­le décisive a lieu entre le 19 et le 23 mai: les Irakiens résistent mais sont battus, écrasés par la supé­riorité ma­té­rielle de leurs adversaires.

 

Les forces de l'Axe étaient clouées dans les Balkans et en Afrique du Nord. Le seul appui dont purent bénéficier les Irakiens: une petite escadrille germano-italienne et des approvisionnements fournis par la France de Vichy au dé­part de la Syrie. L'extrême-nord du pays n'est pacifié définitivement que le 9 juin. L'occupation du pays est laissée à deux divisions indiennes: la 8ième au Sud et la 10ième au Nord, tandis qu'u­ne brigade entière (la 24ième) est mo­bilisée pour protéger les lignes de com­munications entre Bassorah et Bagdad, menacées par les partisans irakiens. Ceux-ci ne déposèrent pas les armes de si­tôt. Francs-tireurs et sabo­teurs restè­rent actifs pendant toute la guerre. Les Britanniques durent mettre sur pied une flotille de bâteaux pa­trouilleurs sur les deux grands fleuves. Autre souci pour la 24ième Brigade: la protection des oléoducs.

 

En fin de compte, la révolte irakienne fut un échec. Les Anglais sont restés so­lidement accrochés au Moyen-Orient. Mais les destructions opérées préala­blement par les troupes irakiennes en retraite, pratiquant la politique de la terre brûlée, ont mobilisé les énergies de bon nombre d'unités de génie. Obli­gés de distraire de gros moyens pour mater les Irakiens, les Anglais ont dû dégarnir leurs fronts libyen et malai­sien, permettant à Rommel d'avancer vers l'Egypte et aux Japonais de s'em­parer de Singapour.

 

Les Britanniques, après la départ de Rachid Ali pour Berlin, réinstallent l'an­cien gouvernement et maintiennent le pays en état d'occupation. En 1943, le gouvernement anglophile irakien dé­cla­re la guerre à l'Axe mais sans pou­voir aligner des troupes. Quelques pi­lotes ira­kiens s'engagent dans l'armée de l'air italienne.

 

Marzio PISANI.

(résumé d'un article paru dans L'Uomo Libero, n°16, nov. 1983; adresse de la revue: L'Uomo Libero, Casella postale 14035, I-20140 Milano, Italie). 

 

jeudi, 10 juin 2010

La Turquie s'éloigne de l'Occident, comme le reste du monde

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La Turquie s’éloigne de l’Occident, comme le reste du monde

La Turquie et toutes les nations émergentes, rendues confiantes par leurs succès économiques, s’émancipent d’une tutelle occidentale moralisatrice de plus en plus mal supportée, écrit l’éditorialiste Semih Idiz, dans le quotidien turc Hürriyet.

 

Le best-seller de Fareed Zakaria titré « Le monde post-américain et l’essor du reste du monde » est une lecture fascinante, un livre prémonitoire. La question de l’Iran s’inscrit parfaitement dans cette perspective. Le problème va bien au delà des actuelles ambitions nucléaires de Téhéran. Cette affaire est en train de se transformer en une impasse qui dessine une nouvelle division du monde.

Cette division peut être caractérisée ainsi : « L’Occident et le Reste du monde », pour reprendre l’expression de Zakaria. Le développement de pays comme l’Inde, la Chine, le Brésil et la Russie – en d’autres termes « le Reste » – dessine un nouveau paysage mondial qui ne répond pas aux vœux de l’Occident.

La Turquie, qui connait également une croissance rapide, montre des tendances plus en plus marquées en direction du « Reste », et moins vers « l’Occident ». Ceci est interprété comme par certains, en Europe et aux États-Unis, comme une « islamisation de la politique étrangère turque », mais cette évolution pointe vers quelque chose de bien plus significatif.

L’émergence de ce nouvel ordre mondial ne constitue bien évidemment pas une surprise. Il était prévu par ceux qui sont suffisamment compétents pour en déceler les signes avant-coureurs. Nombre d’historiens occidentaux, d’économistes, et des chercheurs en sciences humaines ont décrit ce processus depuis un certain temps.

Quelques noms viennent immédiatement à l’esprit, notamment ceux de Walter Laqueur (« Les derniers jours de l’Europe : une épitaphe pour le vieux continent »), Joseph E. Stiglitz (« La Grande Désillusion »), et Zakaria, mentionné ci-dessus.

Même un Timothy Garton Ash, apparemment optimiste dans « Monde Libre : l’Amérique, l’Europe et le futur inattendu de l’Occident », décrit ce qui se adviendra si le lien de transatlantique n’est pas renforcé dans toutes ses dimensions, ce qui est bien sûr plus facile à dire qu’à faire, comme l’admet l’auteur.

Dans le même temps, l’anti-occidentalisme en général et particulièrement l’anti-américanisme deviennent de plus en plus palpable chez les Turcs. Rester partisan de l’orientation occidentale de la Turquie dans ce climat devient un défi pour une élite minoritaire. Mais l’éloignement de la Turquie des États-Unis et de l’Europe n’est pas quelque chose qui inquiète les Turcs dans leur majorité.

Cette attitude à l’égard de l’Occident n’est à l’évidence pas spécifique aux Turcs. De la Russie à l’Inde, de la Chine à l’Afrique, on assiste à une réaction croissante et forte contre l’Occident. Certains parlent d’un retour de bâton « post-colonial. »

Roberto Fao, un doctorant à l’Université d’Harvard qui a écrit pour le Financial Times, a travaillé à la Banque Mondiale et été consultant pour des projets gouvernementaux, propose des vues intéressantes sur la question.

Dans une tribune publiée par EUobserver.com le 25 mai, M. Fao affirme que les Européens doivent aujourd’hui « se demander pourquoi ils provoquent si peu de respect dans le monde. » Il cite Kishore Mahbubani, le doyen de la Lee Kwan Yew School of International Affairs de Singapour, qui soutient que l’Europe ne comprend pas à « quel point elle devient peu pertinente pour le reste du monde. »

M. Fao rappelle également que Richard Haas, le président du Council on Foreign Relations, a déclaré publiquement « adieu à l’Europe en tant que puissance de haut rang. » M. Fao ne croit cependant pas que l’on puisse négliger cette situation, en n’y voyant qu’une simple « jalousie » de la part des non-européens.

« Au contraire », écrit-il, « j’y discerne une vérité plus dérangeante. Les pays du monde entier ne supportent plus depuis longtemps l’ingérence et les leçons de morale de l’Occident, et ont acquis assez de confiance pour parler haut face à une Europe dont l’influence mondiale n’est plus considérée comme assurée ».

Dans son livre, Zakaria parle de la même « confiance » que des nations ont gagnée face aux États-Unis, avec quelques raisons pour ce faire.

« Les plus grandes tours, les plus grands barrages, les films à succès, et les téléphones mobiles les plus sophistiqués sont tous réalisés désormais à l’extérieur de l’Europe et les États-Unis », note-t-il, en ajoutant que « les pays qui manquaient par le passé de confiance politique et de fierté nationale les acquièrent. »

A la suite du monde bipolaire, le monde unipolaire semble lui aussi en train de s’effondrer, donnant naissance à un monde multipolaire où les possibilités de « l’Occident » sont en déclin, tandis que celles du « Reste » augmentent progressivement.

De fait, si l’Iran doit bien sûr être empêché d’obtenir une arme nucléaire – tout comme Israël et tous les autres devraient être obligés de mettre fin à leurs programmes et d’abandonner leurs stocks d’armes nucléaires existants – l’enjeu va bien au-delà.

Il s’agit d’un nouvel ordre qui va exiger des réponses très différentes à ce que nous connaissons aujourd’hui, si l’on veut que les problèmes brûlants ne mènent pas à des affrontements dont personne ne sortira gagnant au bout du compte.

Article original en anglais : Hürriyet (Turquie)

Traduction française : ContreInfo

mardi, 08 juin 2010

El acuerdo Iràn-Brasil-Turquia: un desafio a la prepotencia de EE.UU e Israel

El acuerdo Irán-Brasil-Turquía: Un desafío a la prepotencia de EE.UU. e Israel

Consortium News/ICH
BRASIL DICE QUE EL ACUERDO CIERRA EL CAMINO A NUEVAS SANCIONES PARA IRÁN
Puede que los tiempos estén cambiando –por lo menos un poco– y que EE.UU. e Israel ya no puedan dictar al resto del mundo cómo hay que manejar las crisis en Oriente Próximo, aunque la secretaria de Estado Hillary Clinton y sus amigos neoconservadores en el Congreso y en los medios estadounidenses han tardado en darse cuenta. Tal vez piensan que siguen controlando la situación, que siguen siendo los listos que menosprecian a advenedizos como los dirigentes de Turquía y Brasil que tuvieron la audacia de ignorar las advertencias de EE.UU. y siguieron recurriendo a la diplomacia para prevenir una posible nueva guerra, ésta respecto a Irán.

 

El lunes, el primer ministro turco Recep Tayyip Erdogan y el presidente brasileño Luiz Inacio Lula da Silva anunciaron su éxito al persuadir a Irán para que envíe aproximadamente un 50% de su uranio poco enriquecido a Turquía a cambio de uranio más enriquecido para su utilización en aplicaciones médicas pacíficas.

El acuerdo tripartito es análogo a otro planteado a Irán por países occidentales el 1 de octubre de 2009, que obtuvo la aprobación iraní en principio pero que luego fracasó.

El que el anuncio conjunto del lunes haya sorprendido a los funcionarios estadounidenses denota una actitud pretenciosa propia de una torre de marfil frente a un mundo que cambia rápidamente a su alrededor, como los antiguos imperialistas británicos desconcertados por una oleada de anticolonialismo en el Raj [administración colonial de India, N. del T.] o algún otro dominio del Imperio.

Significativamente, los funcionarios de EE.UU. y sus acólitos en los Medios Corporativos Aduladores (o MCA) no pudieron creer que Brasil y Turquía se atreverían a impulsar un acuerdo con Irán al que se opusieran Clinton y el presidente Barack Obama.

Sin embargo existían señales de que esos poderes regionales ascendentes ya no estaban dispuestos a comportarse como niños obedientes mientras EE.UU. e Israel tratan de tomarle el pelo al mundo para conducirlo a una nueva confrontación en Oriente Próximo.

Hacer frente a Israel

En marzo, el primer ministro israelí Benjamin Netanyahu se sintió tan molesto con la defensa del diálogo con Irán por parte del presidente Lula da Silva que dio un severo sermón al recién llegado de Sudamérica. Pero el presidente brasileño no cedió.

Lula da Silva se mostró crecientemente preocupado de que, a falta de una diplomacia rápida y ágil, Israel probablemente seguiría la escalada de sanciones con un ataque contra Irán. Sin andarse con rodeos, Lula da Silva dijo:

“No podemos permitir que suceda en Irán lo que pasó en Iraq. Antes de cualquier sanción, debemos realizar todos los esfuerzos posibles para tratar de lograr la paz en Oriente Próximo.”

Erdogan de Turquía tuvo su propia confrontación con un dirigente israelí poco después del ataque contra Gaza desde el 17 de diciembre de 2008 hasta el 18 de enero de 2009, en el que murieron unos 1.400 habitantes de Gaza y 14 israelíes.

El 29 de enero de 2009, el presidente turco participó con el presidente israelí Shimon Peres en un pequeño panel moderado por David Ignatius del Washington Post en el Foro Económico Mundial en Davos, Suiza.

Erdogan no pudo tolerar la resonante y apasionada defensa de la ofensiva de Gaza de Peres. Erdogan describió Gaza como “prisión al aire libre” y acusó a Peres de hablar fuerte para ocultar su “culpa”. Después de que Ignatius otorgó a Peres el doble del tiempo que a Erdogan, este último se enfureció, e insistió en responder al discurso de Peres.

El minuto y medio final, capturado por la cámara de la BBC, muestra a Erdogan apartando el brazo estirado de Ignatius, mientras éste trata de interrumpirlo con ruegos como: “Realmente tenemos que llevar a la gente a la cena”. Erdogan continúa, se refiere al “Sexto Mandamiento –no matarás-”, y agrega: “Estamos hablando de asesinatos” en Gaza. Luego alude a una barbarie “que va mucho más allá de lo aceptable,” y abandona la sala anunciando que no volverá a ir a Davos.

El gobierno brasileño también condenó el bombardeo de Gaza por Israel como “una reacción desproporcionada”. Expresó su preocupación de que la violencia en la región había afectado sobre todo a la población civil.

La declaración de Brasil se hizo el 24 de enero de 2009, sólo cinco días antes de la enérgica crítica de Erdogan ante el intento del presidente israelí de defender el ataque. Tal vez fue el momento en el que se plantó la semilla que germinó y creció en un esfuerzo decidido de actuar enérgicamente para impedir otro sangriento estallido de hostilidades.

Es lo que Erdogan hizo, con la colaboración de Lula da Silva. Los dos dirigentes regionales insistieron en un nuevo enfoque multilateral para impedir una potencial crisis en Oriente Próximo, en lugar de simplemente aceptar la toma de decisiones en Washington, guiado por los intereses de Israel.

Así que pónganse al día, muchachos y muchachas en la Casa Blanca y en Foggy Bottom [Barrio de Washington en el que se encuentra la sede del Departamento de Estado, N. del T.]. El mundo ha cambiado; ya no tenéis la última palabra.

En última instancia podríais incluso agradecer que hayan aparecido algunos adultos prescientes, que se colocaron a la altura de las circunstancias, y desactivaron una situación muy volátil de la que nadie –repito, nadie– habría sacado provecho.

Argumentos falaces para un cambio de régimen

Incluso se podría haber pensado que la idea de que Irán entregue cerca de la mitad de su uranio poco enriquecido se vería como algo bueno para Israel, disminuyendo posiblemente los temores israelíes de que Irán podría obtener la bomba en un futuro previsible.

Desde todo punto de vista, la entrega de la mitad del uranio de Irán debería reducir esas preocupaciones, pero NO parece que la bomba sea la preocupación primordial de Israel. Evidentemente, a pesar de la retórica, Israel y sus partidarios en Washington no ven la actual disputa por el programa nuclear de Irán como una “amenaza existencial”.

Más bien la ven como otra excelente oportunidad para imponer un “cambio de régimen” a un país considerado uno de los adversarios de Israel, como Iraq bajo Sadam Hussein. Como en el caso de Iraq, el argumento para la intervención es la acusación de que Irán quiere un arma nuclear, un arma de destrucción masiva que podría compartir con terroristas.

El hecho de que Irán, como Iraq, ha desmentido que esté construyendo una bomba nuclear –o que no haya información verosímil que pruebe que Irán esté mintiendo (un Cálculo Nacional de Inteligencia de EE.UU. expresó en 2007 su confianza en que Irán había detenido tales empeños cuatro años antes)– es normalmente descartado por EE.UU. y sus MCA.

En su lugar se vuelve a utilizar la aterradora noción de que Irán con armas nucleares podría de alguna manera compartirlas con al-Qaida o algún otro grupo terrorista para volver a atemorizar al público estadounidense. (Se hace caso omiso del hecho de que Irán no tiene vínculos con al-Qaida, que es suní mientras Irán es chií, tal como el secular Sadam Hussein desdeñaba al grupo terrorista.)

No obstante, antes en este año, la secretaria de Estado Clinton, al responder a una pregunta después de un discurso en Doha, Qatar, dejó escapar una parte de esa realidad: que Irán “no amenaza directamente a EE.UU., pero amenaza directamente a muchos de nuestros amigos, aliados, y socios” –léase Israel, como el primero y principal de los amigos.

A Clinton también le gustaría que usáramos la gimnasia mental requerida para aceptar el argumento israelí de que si Irán construyera de alguna manera una sola bomba con el resto de su uranio (presumiblemente después de refinarlo al nivel de 90% requerido para un arma nuclear cuando Irán ha tenido problemas tecnológicos a niveles mucho más bajos), se plantearía una amenaza inaceptable para Israel, que posee entre 200 y 300 armas nucleares junto con los misiles y bombarderos necesarios para lanzarlas.

Pero si no se trata realmente de la remota posibilidad de que Irán construya una bomba nuclear y quiera cometer un suicidio nacional al utilizarla, ¿qué está verdaderamente en juego? La conclusión obvia es que el intento de infundir miedo respecto a armas nucleares iraníes es la última justificación para imponer un “cambio de régimen” en Irán.

Los orígenes de ese objetivo se remontan por lo menos al discurso del “eje del mal” del presidente George W. Bush en 2002, pero tiene un precedente anterior. En 1996, destacados neoconservadores estadounidenses, incluyendo a Richard Perle y Douglas Feith, prepararon un documento radical de estrategia para Netanyahu que planteaba un nuevo enfoque para garantizar la seguridad de Israel, mediante la eliminación o neutralización de regímenes musulmanes hostiles en la región.

Llamado “Cortar por lo sano: Una nueva estrategia para asegurar el país [Israel]”, el plan preveía abandonar las negociaciones de “tierra por paz” y en su lugar “restablecer el principio de la acción preventiva”, comenzando por el derrocamiento de Sadam Hussein y enfrentando a continuación a otros enemigos regionales en Siria, el Líbano e Irán.

Sin embargo, para lograr un objetivo tan ambicioso –con la ayuda necesaria del dinero y el poderío militar estadounidenses– había que presentar como insensatas o imposibles las negociaciones tradicionales de paz y exacerbar las tensiones.

Obviamente, con el presidente Bush en la Casa Blanca y con el público en EE.UU. indignado por los ataques del 11-S, se abrieron nuevas posibilidades –y Sadam Hussein, el primer objetivo para “asegurar el área”, fue eliminado por la invasión de Iraq dirigida por EE.UU-

Pero la Guerra de Iraq no se desarrolló con la facilidad esperada, y las intenciones del presidente Obama de revivir el proceso de paz de Oriente Próximo y de entablar negociaciones con Irán emergieron como nuevos obstáculos para el plan. Se hizo importante mostrar lo ingenuo que era el joven presidente ante la imposibilidad de negociar con Irán.

Saboteando un acuerdo

Muchas personas influyentes en Washington se espantaron el 1 de octubre pasado cuando Teherán aceptó enviar al extranjero 1.200 kilos (entonces cerca de un 75% del total en Irán) de uranio poco enriquecido para convertirlos en combustible para un pequeño reactor que realiza investigación médica.

El negociador nuclear jefe de Irán, Saeed Jalili, presentó el acuerdo “en principio” de Teherán en una reunión en Ginebra de miembros del Consejo de Seguridad de la ONU, más Alemania, presidida por Javier Solana de la Unión Europea.

Incluso el New York Times reconoció que esto, “si sucede, representaría un logro importante para Occidente, reduciendo la capacidad de Irán de producir rápidamente un arma nuclear, y logrando más tiempo para que fructifiquen las negociaciones”.

La sabiduría convencional presentada actualmente en los MCA pretende que Teherán echó marcha atrás respecto al acuerdo. Es verdad; pero es sólo la mitad de la historia, un caso que destaca cómo, en el conjunto de prioridades de Israel, lo más importante es el cambio de régimen en Irán.

El intercambio de uranio tuvo el apoyo inicial del presidente de Irán Mahmud Ahmadineyad. Y una reunión de seguimiento se programó para el 19 de octubre en el Organismo Internacional de Energía Atómica (OIEA) en Viena.

Sin embargo el acuerdo fue rápidamente criticado por grupos de la oposición de Irán, incluido el “Movimiento Verde” dirigido por el candidato presidencial derrotado Mir Hossein Mousavi, quien ha tenido vínculos con los neoconservadores estadounidenses y con Israel desde los días de Irán-Contra en los años ochenta, cuando era el primer ministro y colaboró en los acuerdos secretos de armas.

Sorprendentemente fue la oposición política de Mousavi, favorecida por EE.UU., la que dirigió el ataque contra el acuerdo nuclear, calificándolo de afrenta a la soberanía de Irán y sugiriendo que Ahmadineyad no era suficientemente duro.

Luego, el 18 de octubre, un grupo terrorista llamado Jundallah, actuando con información extraordinariamente exacta, detonó un coche bomba en una reunión de altos comandantes de los Guardias Revolucionarios iraquíes y de dirigentes tribales en la provincia de Sistan-Baluchistán en el sudeste de Irán. Un coche repleto de Guardias también fue atacado.

Un brigadier general que era comandante adjunto de las fuerzas terrestres de los Guardias Revolucionarios, el brigadier que comandaba el área fronteriza de Sistan-Baluchistán y otros tres comandantes de brigada resultaron muertos en el ataque; docenas de oficiales militares y civiles resultaron muertos o heridos.

Jundallah reivindicó los atentados, que tuvieron lugar después de años de ataques contra Guardias Revolucionarios y policías iraníes, incluyendo un intento de emboscada de la caravana de automóviles del presidente Ahmadineyad en 2005.

Teherán afirma que Jundallah está apoyado por EE.UU., Gran Bretaña e Israel, y el agente en retiro de operaciones de la CIA en Oriente Próximo, Robert Baer, ha identificado a Jundallah como uno de los grupos “terroristas buenos” que gozan de ayuda de EE.UU.

Creo que no es coincidencia que el ataque del 18 de octubre –el más sangriento en Irán desde la guerra de 1980 hasta 1988 con Iraq– haya tenido lugar un día antes de que las conversaciones nucleares debían reanudarse en la OIEA en Viena para dar seguimiento al logro del 1 de octubre. Era seguro que los asesinatos aumentarían las sospechas de Irán sobre la sinceridad de EE.UU.

Era de esperar que los Guardias Revolucionarios fueran directamente a su jefe, el Supremo Líder Ali Jamenei y argumentaran que el atentado y el ataque en la ruta demostraban que no se podía confiar en Occidente.

Jamenei publicó una declaración el 19 de octubre condenando a los terroristas, a los que acusó de estar “apoyados por las agencias de espionaje de ciertas potencias arrogantes.”

El comandante de las fuerzas terrestres de los Guardias, quien perdió a su adjunto en el ataque, dijo que los terroristas fueron “entrenados por EE.UU. y Gran Bretaña en algunos países vecinos”, y el comandante en jefe de los Guardias Revolucionarios amenazó con represalias.

El ataque fue una noticia importante en Irán, pero no en EE.UU., donde los MCA relegaron rápidamente el incidente al gran agujero negro de la memoria estadounidense. Los MCA también comenzaron a tratar la cólera resultante de Irán por lo que consideraba como actos de terrorismo, y su creciente sensibilidad ante el cruce de sus fronteras por extranjeros, como un esfuerzo por intimidar a grupos “pro democracia” apoyados por Occidente.

A pesar de todo, Irán envía una delegación

A pesar del ataque de Jundallah y de las críticas de los grupos opositores, una delegación técnica iraní de bajo nivel fue a Viena a la reunión del 19 de octubre, pero el principal negociador nuclear de Irán, Saeed Jalili, no participó.

Los iraníes cuestionaron la fiabilidad de las potencias occidentales y presentaron objeciones a algunos detalles, como dónde tendría lugar la transferencia. Los iraníes plantearon propuestas alternativas que parecían dignas de consideración, como que se hiciera la transferencia del uranio en territorio iraní o en algún otro sitio neutral.

El gobierno de Obama, bajo creciente presión interior sobre la necesidad de mostrarse más duro con Irán, descartó directamente las contrapropuestas de Irán, al parecer por instigación del jefe de gabinete de la Casa Blanca, Rahm Emanuel, y del emisario regional neoconservador Dennis Ross.

Ambos funcionarios parecieron opuestos a emprender cualquier paso que pudiera disminuir entre los estadounidenses la impresión de que Ahmadineyad fuera otra cosa que un perro rabioso que debía sacrificarse, el nuevo sujeto más detestado (reemplazando al difunto Sadam Hussein, ahorcado por el gobierno instalado por EE.UU. en Iraq).

Ante todo eso, Lula da Silva y Erdogan vieron la semejanza entre el afán de Washington de una escalada de la confrontación con Irán y el modo en que EE.UU. había conducido al mundo, paso a paso, hacia la invasión de Iraq (completada con la misma cobertura ampliamente sesgada de los principales medios noticiosos estadounidenses.)

Con la esperanza de impedir un resultado semejante, los dos dirigentes recuperaron la iniciativa de transferencia de uranio del 1 de octubre y lograron que Teherán aceptara condiciones similares el lunes pasado. Especificaban el envío de 1.200 kilos de uranio poco enriquecido de Irán al extranjero a cambio de barras nucleares que no servirían para producir un arma.

Sin embargo, en lugar de apoyar la concesión iraní al menos como un paso en la dirección adecuada, los responsables de EE.UU. trataron de sabotearla, presionando en su lugar por más sanciones. Los MCA hicieron su parte al insistir en que el acuerdo no era más que otro truco iraní que dejaría a Irán con suficiente uranio para crear en teoría una bomba nuclear.

Un editorial en el Washington Post del martes, con el título “Mal acuerdo,” concluyó triste e ilusionadamente: “Es posible que Teherán eche marcha atrás incluso respecto a los términos que ofreció a Brasil y Turquía –caso en el cual esos países se verían obligados a apoyar sanciones de la ONU.”

El miércoles, un editorial del New York Times dio retóricamente unas palmaditas en la cabeza a los dirigentes de Brasil y Turquía, como si fueran campesinos perdidos en el mundo urbano de la diplomacia dura. El Times escribió: “Brasil y Turquía… están ansiosos de tener mayores roles internacionales. Y están ansiosos de evitar un conflicto con Irán. Respetamos esos deseos. Pero como tantos otros, fueron engañados por Teherán”.

En lugar de seguir adelante con el acuerdo de transferencia de uranio, Brasil y Turquía deberían “sumarse a los otros protagonistas importantes y votar por la resolución del Consejo de Seguridad”, dijo el Times. “Incluso, antes de eso, debieran volver a Teherán y presionar a los mulás para que lleguen a un compromiso creíble y comiencen negociaciones serias.”

Centro en sanciones

Tanto el Times como el Post han aplaudido la actual búsqueda por el gobierno de Obama de sanciones económicas más duras contra Irán –y el martes, consiguieron algo que provocó su entusiasmo.

“Hemos llegado a acuerdo sobre un borrador contundente [resolución de sanciones] con la cooperación tanto de Rusia como de China,” dijo la secretaria Clinton al Comité de Relaciones Exteriores del Senado, dejando claro que veía la oportunidad de las sanciones como una respuesta al acuerdo Irán-Brasil-Turquía.

“Este anuncio es una respuesta tan convincente a los esfuerzos emprendidos en Teherán durante los últimos días como cualquier otra que pudiésemos suministrar,” declaró.

A su portavoz, Philip J. Crowley, le quedó la tarea de explicar la implicación obvia de que Washington estaba utilizando las nuevas sanciones para sabotear el plan de transferir fuera del país la mitad del uranio enriquecido de Irán.

Pregunta: “¿Pero usted dice que apoya y aprecia [el acuerdo Irán-Brasil-Turquía], pero no piensa que lo obstaculiza de alguna manera? Quiero decir que, ahora, al introducir la resolución el día después del acuerdo, usted prácticamente asegura una reacción negativa de Irán.”

Otra pregunta: “¿Por qué, en realidad, si usted piensa que este acuerdo Brasil-Turquía-Irán no es serio y no tiene mucho optimismo en que vaya a progresar y que Irán seguirá mostrando que no es serio en cuanto a sus ambiciones nucleares, por qué no espera simplemente que sea así y entonces obtendría una resolución más dura e incluso Brasil y Turquía votarían por ella porque Irán los habría humillado y avergonzado? ¿Por qué no espera simplemente para ver cómo resulta?”

Una pregunta más: “La impresión que queda, sin embargo, es que el mensaje –seguro que es un mensaje para Irán, pero hay también un mensaje para Turquía y Brasil, y es básicamente: salgan de la arena, hay muchachos y muchachas grandes en el juego y no necesitamos que se metan. ¿No aceptan eso?”

Casi me da pena el pobre P.J. Crowley, que hizo todo lo posible por hacer la cuadratura de éste y otros círculos. Sus respuestas carecían de candor, pero reflejaban una extraña capacidad de adherirse a un punto clave; es decir, que la “verdadera clave”, el “tema primordial” es el continuo enriquecimiento de uranio por Irán. Lo dijo, en palabras idénticas o similares al menos 17 veces.

Es algo curioso, en el mejor de los casos, que en este momento el Departamento de Estado haya decidido citar ese único punto como algo espectacular. El acuerdo ofrecido a Teherán el 1 de octubre pasado tampoco requería que renunciara al enriquecimiento.

Y el énfasis actual en la no observación de resoluciones del Consejo de Seguridad –que habían sido exigidas por EE.UU. y sus aliados– recuerda misteriosamente la estrategia para llevar al mundo hacia la invasión de Iraq en 2003.

Crowley dijo que el gobierno no piensa en “un itinerario en particular” para someter a votación una resolución, y dijo que “tardará lo que sea”. Agregó que el presidente Obama “presentó un objetivo de que esto se termine a finales de esta primavera” –aproximadamente dentro de un mes.

Contrainiciativa

A pesar de los esfuerzos de los círculos oficiales de Washington y los formadores de opinión neoconservadores para desbaratar el plan Irán-Brasil-Turquía, todavía parece mantenerse vivo, por lo menos de momento.

Funcionarios iraníes han dicho que enviarán una carta confirmando el acuerdo a la OIEA dentro de una semana. Dentro de un mes, Irán podría embarcar 1.200 kilos de su uranio poco enriquecido a Turquía.

Dentro de un año, Rusia y Francia producirían 120 kilos de uranio enriquecido a 20% para utilizarlo en la reposición de combustible para un reactor de investigación en Teherán que produce isótopos con el fin de tratar a pacientes de cáncer.

En cuanto a la afirmación de Clinton de que China, así como Rusia, forma parte de un consenso sobre el borrador de resolución del Consejo de Seguridad, el tiempo lo dirá.

Se duda en particular de la firmeza de la participación china. El lunes, responsables chinos saludaron la propuesta Irán-Brasil-Turquía y dijeron que debe explorarse a fondo. Funcionarios rusos también sugirieron que se debería dar una oportunidad al nuevo plan de transferencia.

Las propuestas de nuevas sanciones tampoco van tan lejos como deseaban algunos partidarios de la línea dura en EE.UU. e Israel. Por ejemplo, no incluyen un embargo de gasolina y otros productos refinados del petróleo, un paso duro que algunos neoconservadores esperaban que llevara a Irán al caos económico y político como preludio para un “cambio de régimen”.

En su lugar, la propuesta de nuevas sanciones especifica inspecciones de barcos iraníes sospechosos de entrar a puertos internacionales con tecnología o armas relacionadas con el tema nuclear. Algunos analistas dudan de que esta provisión tenga mucho efecto práctico sobre Irán.

Israel consultará con Washington antes de emitir una respuesta oficial, pero funcionarios israelíes han dicho a la prensa que el acuerdo de transferencia es un “truco” y que Irán ha “manipulado” a Turquía y Brasil.

Existen todos los motivos del mundo para creer que Israel buscará exhaustivamente una manera de sabotear el acuerdo, pero no está claro que los instrumentos diplomáticos usuales funcionen en esta etapa. Queda, claro está, la posibilidad de que Israel se juegue el todo por el todo y lance un ataque militar preventivo contra las instalaciones nucleares de Irán.

Mientras tanto es seguro que el primer ministro israelí Netanyahu aplicará toda la presión que pueda sobre Obama.

Como antiguo analista de la CIA, espero que Obama tenga la sangre fría necesaria para ordenar un Cálculo Nacional de Inteligencia especial por la vía rápida sobre las implicaciones del acuerdo Irán-Brasil-Turquía para los intereses nacionales de EE.UU. y los de los países de Oriente Próximo.

Obama necesita una evaluación sin adornos de las posibles ventajas del acuerdo (y sus potenciales aspectos negativos) como contrapeso para el cabildeo favorable a Israel que inevitablemente influye en la Casa Blanca y el Departamento de Estado.

* * *

Ray McGovern trabaja con Tell the Word, el brazo editor de la ecuménica Iglesia del Salvador en Washington, DC. Fue analista de la CIA durante 27 años y ahora sirve en el Grupo de Dirección de Profesionales Veteranos de la Inteligencia por la Cordura (VIPS).

Este artículo fue publicado primero en ConsortiumNews.com

Fuente: http://www.informationclearinghouse.info/article25492.htm

samedi, 05 juin 2010

Emotionnel contre émotionnel en Méditerranée

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Émotionnel contre émotionnel en Méditerranée

par Jean-Gilles MALLIARAKIS

Ex: http://www.insolent.fr/

Le monde entier, depuis 3 jours, vit au rythme d'un événement émotionnel bien significatif. En effet, depuis l'opération israélienne Plomb durci contre Gaza de janvier 2009, le schéma interprétatif a complètement achevé une évolution commencée au début des années 1990 avec la couverture des "intifadas". Tout ce que peut désormais entreprendre l'État hébreu voit se retourner contre lui le dispositif médiatique du "village mondial" dont il avait su extraordinairement tirer parti pendant un demi-siècle. D'une innocence systématique, d'une louange obligatoire, d'une impunité assurée, couvertes par la mauvaise conscience occidentale consécutive à la seconde guerre mondiale, il semble être passé à l'excès inverse.

L'arraisonnement d'une flottille turque par la marine israélienne a certes fait 9 morts. Que cela soit intervenu dans des conditions mal déterminées ne peut même pas faire partie du débat.

Ce 2 juin à 2 h 16 on apprenait ainsi qu'Israël, après divers petits contingents de détenus issus de différents pays de la communauté européenne, expulsait 50 Turcs sur les 300 capturés sur le transbordeur "Mavi Marmara" battant pavillon de la république kémaliste.

Le gouvernement d'Ankara parle haut et fort : "personne ne devrait mettre à l'épreuve la patience turque" déclare ainsi son Premier ministre Erdogan. Parallèlement on découvre les commentaires des chroniqueurs de Zaman Today, habituellement consacrés aux sujets les plus divers et marqués par une grande liberté de ton, au moins apparente. Ce 2 juin, tous évoquent la même affaire et ils le font sur le mode où la presse parisienne parlait de la Prusse entre 1914 et 1918 : "l'État voyou", "aider Gaza", "les actes barbares des soldats israéliens", "la Turquie vue du Moyen orient", "pourrons-nous oublier ?", "quel avenir pour les relations turco-israéliennes ?", "pourquoi Israël a fait ça", etc. On trouve même dans cette édition une évocation de la "similitude entre l'attaque israélienne et le PKK". Les rebelles kurdes marxistes-léninistes "agents du sionisme et de l'impérialisme" ? Voyons, mais c'est… bien sûr… élémentaire mon cher Watson.

Certes un œil un peu exercé décèle sans trop de difficulté des nuances, et surtout la perspective du retournement prévisible de l'intelligente diplomatie turque, dès lors qu'elle se trouvera placée, par la grâce du président mondial Obama, en position d'arbitre.

La fameuse flottille humanitaire était préparée depuis des mois en liaison entre le gouvernement d'Ankara et le mouvement gauchiste international "Free Gaza", proche de "Die Linke" en Allemagne. Celui-ci est évidemment soutenu par diverses personnalités de façade. On cite ainsi 70 noms allant de Desmond Tutu à Noam Chomsky. Il opère depuis août 2008 diverses livraisons tendant à rompre le blocus israélo-égyptien contre le territoire de Gaza contrôlé par le Hamas, lui-même en opposition à l'Autorité palestinienne de Ramallah.

Elle est partie, font semblant de préciser les commentateurs agréés, de Chypre. Or cette information contient quand même quelque ambiguïté. Les 15 ou 20 personnalités écran ont-elles transité par la République de Chypre membre de l'Union européenne ? Par les bases britanniques ? Ou, bien clairement, par la zone nord de l'île d'Aphrodite que la Turquie occupe au mépris du droit international depuis 1974 ? Elles sont passées en fait le 30 mai par le port de Famagouste sous contrôle de l'armée d'Ankara dont les ressortissants représentent la moitié des effectifs des militants arraisonnés.

Certes, il y a bien longtemps que 200 000 réfugiés chrétiens, expulsés, spoliés, c'est-à-dire environ 80 % de la population du nord, accueillis au sud de l'île, où ils forment un bon tiers du peuple chypriote, ni les églises pillées ou détruites ne bouleversent plus les professionnels de l'émotionnel.

La grande affaire des politiciens du sud de l'Europe, celle de la finance pétrolière, se porte sur la très irréaliste "union pour la Méditerranée", à 44 États-Membres. Pas question de s'intéresser à des questions qui fâchent et qui pourtant touchent des terres ou des eaux européennes, la mer Égée, Chypre, les pressions d'Ankara sur la Bulgarie, sur la Grèce, etc. La souveraineté et la sécurité de l'Europe ne préoccupent personne à Bruxelles où l'ectoplasme de Lady Ashton veille à l'inexistence d'une politique extérieure commune. La SDN se porte de mieux en mieux.
JG Malliarakis

vendredi, 04 juin 2010

Pourquoi Israël a-t-il attaqué des civils en Méditerranée?

Pourquoi Israël a t-il attaqué des civils en Méditerranée ?

Israël a pesé à l’avance les conséquences de l’attaque qu’il a lancé contre un convoi humanitaire maritime. Quels sont ses objectifs en déclenchant une crise diplomatique mondiale, pourquoi a t-il défié son allié turc et son protecteur états-unien ?

mavi_marmara_reuters_466.jpgL’attaque conduite par trois patrouilleurs lance-missiles israéliens de classe Saar, le 31 mai 2010, contre la flottille de la liberté, dans les eaux internationales de Méditerranée illustre la fuite en avant de Tel-Aviv.

La flottille de la liberté est une initiative de militants des droits de l’homme (1) (2), soutenue par le gouvernement turc. Son objectif est à la fois de véhiculer de l’aide humanitaire jusqu’à Gaza et, ce faisant, de briser le blocus mis en place illégalement par l’armée israélienne à l’encontre d’1,5 million de Gazaouites.

La décision d’aborder des navires civils dans les eaux internationales constitue un « acte de guerre » au regard du droit international. Juridiquement parlant, il y a eu vol des navires et de leurs cargaison, enlèvement et séquestration de leurs passagers, meurtres ; voire assassinats, si l’on admet les informations de la télévision turque selon laquelle les commandos avaient une liste des personnalités à liquider au cours de l’assaut.

Cet acte de guerre, à l’encontre des pavillons grecs et turcs de ces navires, a été perpétré afin de consolider le blocus, lequel constitue en lui-même une violation du droit international.

En choisissant l’argument de la « légitime défense », les autorités israéliennes ont explicitement revendiqué leur souveraineté sur les eaux internationales à 69 miles nautiques au large de la Palestine ; cette annexion —temporaire ou durable— étant nécessaire à la poursuite du blocus, lequel serait nécessaire à la sécurité de l’Etat d’Israël.

En abordant un navire turc et en en tuant des passagers, Tel-Aviv a d’abord choisi de répondre militairement à la crise diplomatique qui l’oppose depuis janvier 2009 à Ankara. Cette initiative est censée provoquer une crise au sein de l’état-major turc et entre celui-ci et le gouvernement turc. Cependant, elle pourrait aboutir à une rupture complète des relations militaires entre les deux pays, alors même que la Turquie aura été pendant un demi-siècle le meilleur allié d’Israël dans la région. D’ores et déjà, les manœuvres conjointes turco-israéliennes ont été annulées sine die. En outre, cette crise pourrait aussi avoir des conséquences sur les relations commerciales entre les deux pays, alors même que la Turquie est un partenaire vital pour l’économie israélienne.

Cependant, Tel-Aviv se devait de casser la crédibilité de la Turquie au moment où elle se rapproche de la Syrie et de l’Iran, et ambitionne d’exercer avec ses nouveaux partenaires une autorité régionale (3). Dans l’immédiat, Israël devait sanctionner le rôle d’Ankara dans la négociation du Protocole de Téhéran sur l’industrie nucléaire iranienne.

Côté turc, où l’on s’attendait à une intervention israélienne musclée mais pas létale, le moment est venu de se poser en protecteur des populations palestiniennes, selon la doctrine néo-ottomane théorisée par le ministre des Affaires étrangères, le professeur Ahmet Davutoğlu. Sans attendre le retour du Premier ministre Recep Erdoğan, en voyage en Amérique latine, l’ambassadeur Turc à Tel-Aviv a été rappelé à Ankara et une cellule de crise a été mise en place autour du vice-Premier ministre, Bülent Arınç. Elle est immédiatement entrée en contact avec les 32 gouvernements des Etats dont les passagers du convoi sont ressortissants. Tout le personnel diplomatique turc a été mobilisé pour saisir du problème le maximum d’Etats et d’organisations internationales. Dans une conférence de presse, M. Arınç a exigé la restitution immédiate des trois bateaux turcs volés et de leur cargaison, ainsi et surtout que la libération des centaines de citoyens turcs enlevés et séquestrés. Il a choisi de qualifier l’attaque d’acte de « piraterie » (et non de guerre), de manière à offrir au gouvernement Netanyahu la possibilité de présenter l’affaire comme une « bavure » et non comme une politique. Dans cette logique, le président Abdullah Gül, quant à lui, a exigé que les tribunaux israéliens jugent les responsables de cette tuerie.

Depuis le Chili, M. Erdoğan a déclaré : « Cette action est totalement contraire aux principes du droit international, c’est le terrorisme d’un Etat inhumain. Je m’adresse à ceux qui ont appuyé cette opération, vous appuyez le sang, nous soutenons le droit humanitaire et la paix ».

Dans l’après-midi, Ankara a saisi la Conseil atlantique. La Turquie est membre de l’OTAN. Si elle ne trouve pas la réponse qu’elle attend du gouvernement israélien, elle pourrait qualifier l’attaque d’acte de guerre et requérir l’aide militaire des Etats membres de l’Alliance en vertu de l’article 5 du Traité de l’Atlantique Nord.

Le gouvernement Netanyahu a invité ses ressortissants à quitter la Turquie, tandis que des manifestations spontanées se multiplient devant les consulats israéliens où la foule réclame vengeance.

Côté états-unien, cette affaire rappelle celle de l’USS Liberty (8 juin 1967). Durant la guerre des Six jours, les Israéliens attaquèrent un bâtiment de surveillance électronique de l’US Navy, faisant 34 morts et 171 blessés. Tel-Aviv présenta ses excuses pour cette méprise sur le champ de bataille tandis que, tout en les acceptant officiellement, Washington y vu un outrage délibéré. Les Israéliens auraient voulu à l’époque sanctionner les critiques états-uniennes.

Cette fois, l’attaque de la flottille de la liberté pourrait être une sanction après le vote par Washington d’une résolution des Etats signataires du Traité de non-prolifération enjoignant Israël à déclarer ses armes nucléaires et à accepter les contrôles de l’Agence internationale de l’énergie atomique.

La décision israélienne d’attaquer des navires civils dans les eaux internationales intervient après l’assassinat aux Emirats d’un dirigeant palestinien par une unité du Mossad ; la découverte d’un vaste système de copie falsifiées de passeports au détriment d’Etats occidentaux ; et le refus d’assister à la conférence internationale de suivi du Traité de non-prolifération. Cet ensemble de faits peut être interprété comme une succession de coups perpétrés par un Etat sûr de son impunité —et dans ce cas, il pourrait s’agir cette fois d’un coup de plus ou de trop—, ou comme une escalade après une courte friction publique avec l’administration US —il s’agirait alors de revendiquer le leadership du mouvement sioniste en montrant que Tel-Aviv décide et Washington entérine—.

Le Premier ministre Benjamin Netanyahu, en voyage en Amérique du Nord, a décidé de terminer sa visite canadienne et d’annuler son rendez-vous à la Maison-Blanche. Il a été joint par téléphone par le président Obama qui lui a demandé des explications.

La Haut commissaire des Nations Unies pour les droits de l’homme, Navi Pillay, a déclaré que l’opération israélienne ne pouvait avoir aucune justification juridique. Le Rapporteur spécial sur les Droits de l’homme dans les territoires occupés palestiniens, Richard Falk, a tenu à souligner qu’au delà de l’atteinte à la liberté de circulation sur les mers, le problème central reste le blocus. « À moins que des actions promptes et décisives soient prises pour mettre au défi l’approche israélienne sur Gaza, nous serons tous complices d’une politique criminelle qui menace la survie d’une communauté assiégée », a t-il affirmé. Le Conseil de sécurité a été convoqué en urgence, ce jour, à 18h TU. Le ministre turc des Affaires étrangères est parti à New York.

(1) « Dr. Arafat Shoukri : "Les conditions sont réunies pour faire de cette flottille un point de rupture" », entretien avec Silvia Cattori, silviacattori.net, 23 avril 2010.

(2) Les principaux organisateurs de la flottille de la liberté sont : Mouvement Free Gaza, Campagne Européenne pour Arrêter le Siège de Gaza (ECESG), Fondation turque d’Aide Humanitaire (IHH), Fondation malaisienne Perdana et Comité International pour Lever le Siège de Gaza.

(3) « Basculement stratégique au Proche-Orient », par Thierry Meyssan, Réseau Voltaire, 15 mai 2010.

Thierry Meyssan

 

mercredi, 02 juin 2010

Aux sources de la crise du Golfe

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Article paru dans « Nationalisme et République », 1991.

Aux sources de la crise du Golfe: la volonté britannique d'exercer un contrôle absolu du Proche-Orient

 

par Robert Steuckers

 

La crise du Golfe a fait couler beaucoup de sang irakien mais aussi beaucoup d'encre. Très souvent inutilement. Inutilement parce presque personne, exceptés quelques très rares spécialistes, n'a cru bon d'interroger les textes anciens, de recourir aux sources de la pensée géopolitique. La géopolitique, comme on commence à le savoir dans l'espace linguistique francophone, est l'art d'examiner et de prophétiser les événements historiques à la lumière de la géographie. Cette démarche a eu des précurseurs allemands (Ratzel et Haushofer que l'on vient de traduire en France chez Fayard; Dix, Maull, Obst, Oesterheld qui demeurent toujours d'illustres inconnus dans nos milieux diplomatiques et intellectuels), suédois (Kjellen) et britanniques (Mackinder, Lea). Pour ce qui concerne les rapports entre l'Europe et le Proche-Orient, c'est le Suédois Kjellen qui, en 1916, en pleine guerre, a émis les théories les plus fines, qui gardent toute leur pertinence aujourd'hui et qui, malheureusement, ne sont plus guère lues et méditées dans nos chancelleries. S'appuyant sur les thèses de Dix, Kjellen, dans son petit ouvrage concis de 1916 (Die politischen Probleme des Weltkrieges; = les problèmes politiques de la guerre mondiale), rappelle que l'Angleterre poursuivait au début du siècle deux objectifs majeurs, visant à souder ses possessions éparpillées en Afrique et en Asie. Albion souhaitait d'abord dominer sans discontinuité l'espace sis entre Le Caire et Le Cap. Pour cela, elle avait éliminé avec la rigueur que l'on sait les deux petites républiques boers libres et massacrés les mahdistes soudanais. L'un de ses buts de guerre, en 1914, était de s'emparer du Tanganyka allemand (la future Tanzanie) par les forces belges du Congo interposées: ce qui fut fait. Le Général belge Tombeur expulse les vaillantes troupes d'askaris allemands de von Lettow-Vorbeck l'Invaincu vers le Mozambique, mais l'Angleterre acquiert le Tanganyka en 1918, laissant à la Belgique le Ruanda et la Burundi, deux bandes territoriales de l'ouest de la colonie allemande. A cette politique impérialiste africaine, l'Angleterre voulait ajouter une domination sans discontinuité territoriale du Caire à Calcutta, ce qui impliquait de prendre sous sa tutelle les provinces arabes de l'Empire ottoman (Palestine, Jordanie, Irak, Bassorah) et de mettre la Perse à genoux, afin qu'elle lui cède le Kouzistan arabe et le Baloutchistan, voisin du Pakistan. Pour parfaire ce projet grandiose, l'Angleterre devait contrôler seule tous les moyens de communication: elle s'était ainsi opposée à la réalisation d'un chemin de fer Berlin-Bagdad, financé non seulement par l'Allemagne de Guillaume II mais aussi par la France et la Suisse; elle s'était opposée aussi  —et les Français l'oublient trop souvent depuis 1918—  à la présence française en Egypte et au contrôle français des actions du Canal de Suez. En 1875, l'Angleterre achète massivement des actions, éliminant les actionnaires français; en 1882, ses troupes débarquent en Egypte. L'Egypte était aussi vitale pour l'Angleterre d'il y a 80 ans qu'elle l'est aujourd'hui pour Bush. Lors du Traité de paix avec la Turquie, l'Angleterre confine la France en Syrie et au Liban, l'expulsant de Mossoul, zone pétrolifère, qui pourtant lui avait été attribuée.

 

L'histoire du chemin de fer Berlin-Bagdad est très instructive. En 1896, les ingénieurs allemands et turcs avaient déjà atteint Konya en Anatolie. L'étape suivante: le Golfe Persique. Ce projet de souder un espace économique étranger à la City londonienne et s'étendant de la Mer du Nord au Golfe contrariait le projet anglais de tracer une ligne de chemin de fer du Caire au Golfe, avant de la poursuivre, à travers la Perse, vers Calcutta. Albion met tout en œuvre pour torpiller cette première coopération euro-turco-arabe non colonialiste, où le respect de l'indépendance de tous est en vigueur. L'Angleterre veut que la ligne de chemin de fer germano-franco-helvético-turque s'arrête à Bassorah, ce qui lui ôte toute valeur puisqu'elle est ainsi privée d'ouverture sur le trafic transocéanique. La zone entre Bassorah et la côte, autrement dit le futur Koweit, acquiert ainsi son importance stratégique pour les Britanniques seuls et non pour les peuples de la région. Dès 1880 les Anglais avaient déjà joué les vassaux côtiers, accessoirement pirates et hostiles aux autochtones bédouins, contre la Turquie. Puisque le terminus du chemin de fer ne pouvait aboutir à Koweit, que les Anglais avait détaché de l'Empire Ottoman, les Turcs proposent de le faire aboutir à Kor Abdallah: les Anglais prétendent que cette zone appartient au Koweit (comme par hasard!). Deuxième proposition turque: faire aboutir la ligne à Mohammera en Perse: les Anglais font pression sur la Perse. Les prolégomènes à l'entêtement de Bush...! Le 21 mars 1911, Allemands et Turcs proposent l'internationalisation de la zone sise entre Bassorah et Koweit, avec une participation de 40% pour la Turquie, de 20% pour la France, 20% pour l'Allemagne, 20% pour l'Angleterre. Proposition on ne peut plus équitable. L'Angleterre la refuse, voulant rester absolument seule entre Bassorah et la côte.

 

Ce blocage irrationnel  —malgré sa puissance, l'Angleterre était incapable de réaliser le projet de dominer tout l'espace entre Le Caire et Le Cap—  a conduit à la fraternité d'armes germano-turque pendant la Grande Guerre. A la dispersion territoriale tous azimuts de l'Empire britannique, Allemands, Austro-Hongrois, Bulgares et Turcs proposent un axe diagonal Elbe-Euphrate, Anvers-Koweit, reliant les ports atlantiques de la Mer du Nord, bloqués par la Home Fleet pendant les hostilités, à l'Insulinde (Indonésie) néerlandaise. Cet espace devait être organisé selon des critères nouveaux, englobant et dépassant ceux de l'Etat national fermé, né sous la double impulsion de 1789 et de la pensée de Fichte. Ces critères nouveaux respectaient les identités culturelles mais fédéraient leurs énergies auparavant éparses pour bâtir des systèmes politiques nouveaux, répondant aux logiques expansives du temps.

 

Les buts de guerre de l'Angleterre ont donc été de fragmenter à l'extrême le tracé de cette diagonale partant des rives de la Mer du Nord pour aboutir au Golfe Persique voire à l'Insulinde néerlandaise. L'alliance entre la France et l'Angleterre s'explique parce que la France n'avait pas de politique pouvant porter ombrage à Londres dans l'Océan Indien. L'alliance, plus étonnante, entre la Russie tsariste et l'Angleterre vient du fait que la Russie avait, elle, intérêt à couper la diagonale Elbe-Euphrate à hauteur du Bosphore et des Dardannelles. C'est ce qui explique la tentative désespérée de Churchill de lancer des troupes contre Gallipoli, avant que les Russes ne s'y présentent. Avec les Russes à Constantinople, la diagonale germano-turque était certes brisée, mais la Russie aurait été présente en Serbie et en Grèce, puis en Crète et à Chypre, ce qui aurait menacé la ligne de communication transméditerranéenne, partant de Gibraltar pour aboutir à Suez en passant par Malte. La révolution bolchévique est venue à temps pour éliminer la Russie de la course. L'entrée en guerre de la Roumanie et la balkanisation de l'Europe centrale et orientale procèdent de la même logique: fragmenter la diagonale.

 

Revenons à l'actualité. La disparition du rideau de fer et l'ouverture prochaine de la navigation fluviale entre Rotterdam et la Mer Noire par le creusement d'un canal entre le Main et le Danube reconstitue le tracé de la diagonale de 1914, du moins jusqu'à Andrinople (Edirne en turc). Les volontés de balkanisation de l'Europe, imposées à Versailles et à Yalta sont réduites à néant. L'intervention des Etats-Unis au Koweit, nous l'avons déjà dit, avait pour objectif premier de restaurer le statu quo et de remettre en selle la famille Al-Sabah qui investit toutes les plus-values de son pétrole dans les circuits bancaires anglais et américains, évitant de la sorte l'effondrement total des économies anglo-saxonnes, basées sur le gaspillage, le vagabondage financier et secouées par l'aventurisme thatchéro-reaganien. Mais les Etats-Unis, héritiers de la politique thalassocratique anglaise, ont en même temps des objectifs à plus long terme. Des objectifs qui obéissent à la même logique de fragmentation de la diagonale Mer du Nord/Golfe Persique.

 

Les stratèges de Washington se sont dit: «si l'Europe est reconstituée dans son axe central Rhin-Main-Danube, elle aura très bientôt la possibilité de reprendre pied en Turquie, où la présence américaine s'avèrera de moins en moins nécessaire vu la déliquescence du bloc soviétique et les troubles qui secouent le Caucase; si l'Europe reprend pied en Turquie, elle reprendra pied en Mésopotamie. Elle organisera l'Irak laïque et bénéficiera de son pétrole. Si l'Irak s'empare du Koweit et le garde, c'est l'Europe qui finira par en tirer profit. La diagonale sera reconstituée non plus seulement de Rotterdam à Edirne mais d'Edirne à Koweit-City. La Turquie, avec l'appui européen, redeviendra avec l'Irak, pôle arabe, la gardienne du bon ordre au Proche-Orient. Les Etats-Unis, en phase de récession, seront exclus de cette synergie, qui débordera rapidement en URSS, surtout en Ukraine, pays capable de revenir, avec un petit coup de pouce, un grenier à blé européen auto-suffisant (adieu les achats de blé aux USA!), puis aux Indes, en Indonésie (un marché de 120 millions d'âmes!), en Australie et en Nouvelle-Zélande. Un grand mouvement d'unification eurasien verrait le jour, faisant du même coup déchoir les Etats-Unis au rang d'une puissance subalterne qui ne ferait plus que décliner. Les Etats-Unis ne seraient plus un pôle d'attraction pour les cerveaux du monde et on risquerait bien de voir s'effectuer une migration en sens inverse: les Asiatiques d'Amérique retourneraient au Japon ou en Chine; les Euro-Américains s'en iraient faire carrière en Allemagne ou en Italie du Nord ou en Suède. Comment éviter cela? En reprenant à notre compte la vieille stratégie britannique de fragmentation de la diagonale!».

 

En effet, les troubles en Yougoslavie ne surviennent-ils pas au bon moment? Rupture de la diagonale à hauteur de Belgrade sur le Danube. Le maître-atout des Etats-Unis dans ce jeu est la Turquie. Le verrou turc bloque tout aujourd'hui. N'oublions pas que c'est dans le cadre de l'OTAN que le Général Evren renverse la démocratie au début de la décennie 80 et que ce putsch permet, après une solide épuration du personnel politique turc, de hisser Özal au pouvoir. Un pouvoir qui n'est démocratique qu'en son vernis. Özal proclame qu'il est «européen» et qu'il veut adhérer à la CEE, malgré les impossibilités pratiques d'une telle adhésion. Les porte-paroles d'Özal en Europe de l'Ouest, notamment en RFA, affirment que la Turquie moderne renonce à tout projet «ottoman», c'est-à-dire à tout projet de réorganisation de l'espace proche-oriental, de concert avec les autres peuples de la région. Pire: Özal coupe les cours du Tigre et de l'Euphrate par un jeu de barrages gigantesques, destinés, dit-on à Ankara, à verdir les plateaux anatoliens. Mais le résultat immédiat de ces constructions ubuesques est de couper l'eau aux Syriens et aux Irakiens et d'assécher la Mésopotamie, rendant la restauration de la diagonale Elbe-Euphrate inutile ou, au moins, extrêmement problématique.

 

L'Europe n'a donc pas intérêt à ce que la guerre civile yougoslave s'étende; elle n'a pas intérêt à ce qu'Özal reste au pouvoir. Les alliés turcs de l'Europe sont ceux qui veulent, avec elle, reconstituer l'axe Berlin-Constantinople-Bagdad et ceux qui refusent l'assèchement et la ruine de la Mésopotamie (déjà les Anglais avaient négligé de reconstituer les canaux d'irrigation). Ensuite, l'Europe doit dialoguer avec un régime européophile à Bagdad et soutenir le développement de l'agriculture irakienne. Ensuite, l'Europe a intérêt à ce que la paix se rétablisse entre la Syrie et l'Irak. Après l'effondrement de l'armée de Saddam Hussein et le déclenchement d'une guerre civile en Irak, elle doit mobiliser tous ses efforts pour éviter la balkanisation de l'espace irakien et l'assèchement de la Mésopotamie. Celui qui tient la Mésopotamie tient à moyen ou long terme l'Océan Indien et en chasse les Américains: un principe géostratégique à méditer. Si l'Europe avait soutenu l'Irak, elle aurait eu une fenêtre sur l'Océan Indien. En resserrant ses liens avec l'Afrique du Sud et avec l'Inde non alignée, elle aurait pu contrôler cet «océan du milieu» et souder l'Eurasie en un bloc cohérant, libéré des mirages du libéralisme délétère.

 

Souder l'Eurasie passe 1) par la reconstitution de la diagonale Mer du Nord/Golfe Persique; 2) par la création d'un transsibérien gros porteur, à écartement large et à grande vitesse, reliant Vladivostock à Hambourg via un système de ferries à travers la Baltique, entre Kiel et Klaipeda en Lituanie (autre point chaud; un hasard?); 3) par une liaison ferroviaire de même type reliant Novosibirsk à Téhéran et Téhéran à Bagdad; 4) par une exploitation japonaise des voies maritimes Tokyo/Singapour, Singapour/Bombay, Bombay/Koweit, cette dernière en coopération avec l'Europe; 5) par une liaison maritime Koweit/Le Cap, exploitée par un consortium euro-turco-irakien. Le rôle de la France dans ce projet: 1) protéger la façade maritime atlantique de l'Europe, en revalorisant sa marine; 2) participer, à hauteur des Comores et de la Réunion, à l'exploitation de la ligne maritime Koweit/Le Cap; 3) jouer de tous les atouts dont elle dispose en Afrique francophone.

 

Un tel projet permet à chaque peuple de la masse continentale eurasiatique de jouer dans ce scénario futuriste un rôle bien déterminé et valorisant, tout en conservant son indépendance culturelle et économique. C'est parce que ce projet était tou d'un coup réalisable que les forces cosmopolites au service de l'Amérique ont mis tout en œuvre pour le torpiller. Peine perdue. Ce qui est inscrit dans la géographie demeure. Et finira par se réaliser. Il suffit de prendre conscience de quelques idées simples. Qui se résument en un mot: diagonale. Diagonale Rotterdam/Koweit. Diagonale Hambourg/Vladivostock. Diagonale Novosibirsk/Téhéran.

 

Robert STEUCKERS.  

 

vendredi, 28 mai 2010

Il caso Chomsky e la democrazia in Israele

noam_chomsky_human_rights.jpgIl caso Chomsky e la democrazia in Israele

di Carlo Tagliacozzo

Fonte: Il Fatto Quotidiano


Il caso dell’ingresso negato a Chomsky in Israele e Palestina merita qualche considerazione. Non è un caso isolato, ma trattandosi di un personaggio di altissimo profilo ha avuto l’attenzione dei media. Centinaia e centinaia di giovani e non giovani attivisti che vogliono portare la loro solidarietà ai palestinesi vengono respinti all’ingresso in Israele e per 5 anni non possono più andarci. Ma il caso Chomsky ha una sua specificità: si tratta di un accademico della più alta istituzione americana, il MIT. Gli israeliani e i loro sostenitori, ma anche larghissima parte dei loro critici dinanzi alla proposta del boicottaggio accademico si inalberano inorriditi in nome della libertà di ricerca. Nel caso di Chomsky si è applicato un boicottaggio individuale, in quanto persona non gradita che si recava nella Palestina occupata e non in Israele. Un esempio che dovrebbe far riflettere quanti sostengono che Israele sia “l’unica democrazia in medio oriente”.


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jeudi, 27 mai 2010

Ophef rond Debray's 'Brief aan een Israelische vriend'

Ophef rond Debray’s ‘Brief aan een Israëlische vriend’

Régis Debray  publiceerde zopas zijn ‘Lettre à un ami israélien’. Zijn vroegere Joodse vrienden reageren verontwaardigd.

Claude Lanzmann is woedend op Régis Debray's briefboek.

deb1-1009.jpgRégis Debray, ooit de compagnon van Che Guevara en adviseur van de presidenten Allende (Chili) en Mitterrand (Frankrijk) heeft bij Flammarion een nieuw boek gepubliceerd: ‘Lettre à un ami israélien’.

Daarmee heeft hij zich de woede op het lijf gehaald van Claude Lanzmann, de maker van de film ‘Shoah’, ooit een vriend van Debray. Lanzmann zorgde ervoor dat de eerste geschriften van Debray in ‘Les temps modernes’ werden gepubliceerd. In een pas verschenen gesprek met ‘Le Point’ noemt Lanzmann het nieuwe boek van Debray conventioneel, conformistisch en opportunistisch. ‘Debray est totalement dans l’air du temps,’ aldus Lanzmann, die zijn ex-strijdmakker verwijt dat hij alle anti-Israëlische gemeenplaatsen die de media beheersen op elkaar stapelt. Het schelden op Israël is volgens Lanzmann een Pavlov-reflex van de mainstream geworden.

De uitval van Lanzmann wekt geen verbazing, want in het boek van Debray staat hij zelf in de beklaagdenbank. Volgens Debray regisseert Lanzmann de Franse shoa-cultus zo radicaal dat elke kritiek op Israël onmogelijk geworden is. Lanzmann gaat akkoord met Debray’s constatering dat de Franse Jood de ‘chouchou’ van de republiek is en dat Joden een belangrijke rol spelen in het economische en intellectuele leven van de Franse republiek, maar het gaat te ver om daaruit af te leiden dat er een Joodse macht bestaat die haar wil oplegt aan Frankrijk.

Lanzmanns conclusie is dat Debray er verkeerd aan doet om zijn boek een titel te geven die herinnert aan de ‘Lettres à un ami allemand’ van Albert Camus (geschreven tijdens en gepubliceerd na de Duitse bezetting). Volgens Lanzmann ging Camus destijds helemaal tegen de tijdgeest in, terwijl Debray juist met de stroom mee zwemt. Lanzmanns slotsom over Debray’s kennis van Israël: ‘Il n’y comprend rien.’

Ook van de Franse historicus Jean-Christophe Rufin, lid van de Académie Française en ambassadeur in Senegal, krijgt Debray een veeg uit de pan. Debray had Rufin in zijn geschrift verweten dat hij het antizionisme strafbaar wilde maken. Maar Rufin bestrijdt dit en zegt dat hij ooit wilde onderzoeken hoe het komt dat sommige jongeren de Israëlische staat met de Duitse nazi-staat vergelijken, de Israëlische leiders met Hitler en de Palestijnse kampen met Auschwitz. Hier wordt de grens tussen opinie en misdaad overschreden, aldus Rufin, die eraan toevoegt dat men in de landen waar hij verblijft boeken met titels als ‘Israël, het Derde Rijk’ haast openlijk in de handel te verkrijgen zijn. Rufin: ‘Zou Debray ermee akkoord gaan als deze boeken in de supermarkten naast zijn laatste boek opgestapeld zouden liggen?’

In dezelfde zin liet de Israëlische diplomaat en historicus Elie Barnavie zich uit in een antwoord dat overigens in Debray’s boek is opgenomen: ‘Tot 1967 heeft de shoa-religie – overigens als anti-imperialistische ideologie – Israël gebaat’. Maar nu is dat juist omgekeerd, aldus Barnavie: ‘Men herinnert aan de dode Joden om de levende Joden nog meer te vernederen. Doen wij de Palestijnen niet aan, wat Hitler met ons deed?’

Piet de Moor

http://knack.rnews.be/nl/actualiteit/nieuws/boeken/nieuws/ophef-rond-debray-s-brief-aan-een-israelische-vriend/article-1194737845339.htm

vendredi, 21 mai 2010

L'Arabia Saudita, l'Iran e la guerra fredda sulle sponde del Golfo

L’Arabia Saudita, l’Iran e la guerra fredda sulle sponde del Golfo

di Giovanni Andriolo

Fonte: eurasia [scheda fonte]


 
L’Arabia Saudita, l’Iran e la guerra fredda sulle sponde del Golfo

Lungo le due sponde del Golfo che alcuni chiamano Arabico altri Persico si fronteggiano due colossi, la cui grandezza si misura non solo con l’estensione territoriale dei due Paesi, ma soprattutto con il peso economico, politico e culturale che entrambi esercitano sulla regione vicino-orientale e, in definitiva, sulla scena mondiale. Si tratta di Arabia Saudita e Iran, due Paesi che, pur presentando vari elementi in comune, sono caratterizzati da una frattura profonda, molto più profonda del Golfo che li separa e la cui ambivalenza nel nome è già di per sé un chiaro segnale della tendenza, da parte di ognuna delle due potenze in questione, di rivendicazione del controllo sull’area a discapito del Paese antagonista.

Analogie e differenze: un punto di partenza

Con la sua estensione di circa 1.700 km² e una popolazione di quasi 70 milioni di abitanti, l’Iran è uno dei Paesi più estesi e popolosi della regione vicino-orientale. L’Arabia Saudita supera l’Iran per estensione, raggiungendo circa i 2.250 km², ma presenta una popolazione inferiore, all’incirca 28 milioni di abitanti. I due Paesi risultano quindi essere tra i maggiori per estensione e, nel caso dell’Iran, popolosità di tutta la regione.

Entrambi i Paesi, poi, occupano un’importantissima area geografica, affiancando entrambi il Golfo Persico/Arabico (a cui, d’ora in poi, ci si riferirà come Golfo), anche se l’Arabia Saudita non si affaccia, come l’Iran, direttamente sull’importantissimo Stretto di Hormuz, passaggio d’ingresso per le navi nel Golfo stesso.

Dal punto di vista economico, i due Paesi basano la loro ricchezza sull’esportazione di materie prime: innanzitutto il petrolio, di cui l’Arabia Saudita detiene le riserve maggiori al mondo, mentre l’Iran si posiziona al terzo posto nella stessa classifica; ma anche gas, acciaio, oro, rame.

Entrambi i Paesi, poi, sono caratterizzati da un sistema politico forte, accentratore, di stampo religioso, che in Arabia Saudita prende le sembianze di un Regno, mentre in Iran si declina in una Repubblica Islamica.

Dal punto di vista culturale, entrambi i Paesi si configurano, per così dire, come Stati-guida della regione, essendo entrambi simbolo di due civiltà e di due culture storicamente importanti e forti.

Proprio su quest’ultimo punto nascono le prime divergenze tra i due Paesi: infatti l’Iran è la culla della civiltà persiana, storicamente affermata e radicata, e per niente disposta a vedersi superata dall’altra grande cultura che caratterizza l’Arabia Saudita, la civiltà araba. A questa prima divergenza culturale si affianca una divergenza religiosa, che vede nell’Iran il Paese-guida della corrente islamica sciita, sia per tradizione storica sia per numero di sciiti presenti nel Paese, mentre dall’altra parte, specularmente, la dinastia dei Saud che regna nell’Arabia Saudita si pone come centro di riferimento della corrente sunnita del mondo islamico.

Infine la posizione internazionale dei due Paesi, che attualmente vede da un lato l’Iran come il nemico più temibile di Israele e Stati Uniti, il primo dei cosiddetti “Stati Canaglia”, il Paese che con il suo piano di sviluppo del nucleare è sospettato di volersi dotare di potenti armi per minacciare la stabilità della regione; mentre dall’altro l’Arabia Saudita è un alleato degli Stati Uniti, un suo fondamentale interlocutore politico e commerciale, una colonna portante del sistema di mantenimento della stabilità nella regione.

Una breve storia dello scontro

La dinastia dei Saud appartiene alla corrente del Wahabismo islamico, una diramazione ultraortodossa del Sunnismo, e fin dalla fondazione del Regno Saudita ha sempre mantenuto un atteggiamento di scetticismo nei confronti dell’Iran sciita e delle sue pretese di espansione militare e controllo della regione. Sia gli Wahabiti sia gli Sciiti continuano da sempre uno scontro ideologico religioso in cui ognuna delle correnti tenta di dimostrare l’infondatezza e l’inconsistenza dell’altra, in entrambi i Paesi. Infatti attualmente in Arabia Saudita circa il 15% della popolazione è di religione musulmana sciita, mentre in Iran circa il 10% della popolazione e sunnita. I rapporti tra i due Paesi si sono tuttavia mantenuti cordiali fino al 1979, anno in cui la Rivoluzione iraniana portò un cambio di regime nel Paese, trasformandolo in una Repubblica Teocratica. Il nuovo leader religioso Ruhollah Khomeini e gli uomini di governo iraniani criticarono aspramente il regime saudita, accusandolo di illegittimità. Dall’altra parte, il nuovo regime rivoluzionario insediatosi in Iran fu visto da parte dell’Arabia Saudita come un ulteriore pericolo per la stabilità della regione e per i propri possedimenti territoriali.

La prime avvisaglie di una guerra fredda tra i due Paesi si ebbero in occasione della Prima guerra del Golfo tra Iran e Iraq, iniziata nel 1980. L’Arabia Saudita, sebbene le sue relazioni con l’Iraq al tempo non fossero particolarmente strette, offrì a Saddam Hussein, sunnita, 25 miliardi di dollari per finanziare la guerra contro l’Iran, e spronò gli altri Stati arabi del Golfo ad aiutare finanziariamente l’Iraq. L’Iran rispose con minacce e con ricognizioni da parte della propria aviazione sul territorio saudita. Malgrado ciò, i due Paesi non interruppero in quel periodo le relazioni diplomatiche.

Prima della fine della guerra, però, accadde un evento che fece deteriorare fortemente le relazioni tra i due Paesi: nel 1987 infatti, durante il tradizionale pellegrinaggio dei fedeli musulmani alla Mecca, in Arabia Saudita, un gruppo di pellegrini sciiti diede vita ad una protesta contro la dinastia saudita, causando una dura reazione da parte delle forze di sicurezza saudite, che uccisero circa 400 dimostranti, di cui più della metà di nazionalità iraniana. Di conseguenza, Khomeini rivolse forti accuse contro l’Arabia Saudita, l’Ambasciata Saudita a Tehran fu attaccata, furono presi in ostaggio alcuni diplomatici sauditi e uno di loro perse la vita. In quell’occasione furono interrotti i rapporti diplomatici tra i due Paesi e l’Arabia Saudita sospese la concessione di visti ai cittadini iraniani, impedendo loro in questo modo di effettuare l’annuale pellegrinaggio alla Mecca.

Dopo la fine della Prima guerra del Golfo, nel 1989, Iran e Arabia Saudita iniziarono lentamente a riavvicinarsi. Un impulso in questo senso fu dato dagli avvenimenti della Seconda guerra del Golfo, iniziata nel 1990, quando Saddam Hussein occupò con il proprio esercito il Kuwait. Iran e Arabia Saudita percepirono l’espansionismo iracheno come un forte pericolo per la propria integrità territoriale e per i propri pozzi petroliferi, per cui criticarono aspramente l’Iraq e in questo si avvicinarono notevolmente, arrivando a ristabilire relazioni diplomatiche nel 1991. In quell’anno le autorità saudite concessero a 115.000 pellegrini iraniani il visto per recarsi in pellegrinaggio alla Mecca.

Negli anni seguenti, i rapporti tra i due Paesi si intensificarono e alla fine degli anni ’90 i capi di stato di entrambi i Paesi scambiarono visite ufficiali nelle rispettive capitali. Iniziò da allora un periodo di cooperazione ufficiale tra i due Paesi con l’intento di diffondere stabilità e sicurezza nella regione.

La situazione attuale

Malgrado il riavvicinamento diplomatico ufficiale tra Iran ed Arabia Saudita negli anni ’90, restano oggi diverse incognite sui rapporti effettivi tra i due Paesi.

Infatti, da un lato l’Arabia Saudita continua a temere un possibile espansionismo iraniano sulla regione del Golfo. In questo senso, alimenta i dubbi sauditi l’atteggiamento del Presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad, anti-statunitense, anti-israeliano, fautore di un controverso programma di sviluppo di energia nucleare, sospettato di voler dotare l’Iran di armi atomiche, critico verso il Regno Saudita e l’alleanza dei Saud con gli Stati Uniti. D’altra parte per l’Iran di Ahmadinejad continua a risultare incoerente l’atteggiamento saudita, che da un lato deplora la presenza israeliana in Palestina, dall’altro si pone come alleato degli Stati Uniti, principali alleati e protettori di Israele, che nella visione del presidente iraniano costituiscono il nemico per eccellenza.

In definitiva, i due Paesi si fanno ugualmente promotori della creazione di ordine e stabilità nella regione vicino-orientale, proponendo tuttavia due diversi schemi: l’Iran infatti predilige un profilo più indipendente e chiaramente ostile alle potenze che, a suo avviso, portano disordine nella regione, gli Stati Uniti e Israele; l’Arabia Saudita, invece, opta per un atteggiamento più riservato nei confronti delle potenze presenti nell’area, attenta soprattutto a perseguire le proprie politiche in accordo con i meccanismi che garantiscono il suo fiorente sviluppo economico. In questo senso, la posizione dell’Arabia Saudita diventa molto difficile, poiché si trova a dovere gestire rapporti amichevoli con attori che tra loro sono in forte conflitto. L’Arabia Saudita infatti si trova al centro di un complicato intreccio di interessi, per cui dipende per la sua sicurezza dagli Stati Uniti, ma allo stesso tempo deve mantenere buoni rapporti di vicinato con l’Iran, pur temendone le velleità aggressive. In contemporanea l’Arabia Saudita si trova a favorire, in quanto campione della civiltà araba e della religione musulmana, la causa palestinese contro la presenza israeliana, ma allo stesso tempo deve continuamente gestire i propri rapporti con gli Stati Uniti, a loro volta principali alleati di Israele.

Da parte sua, l’Iran nutre forti timori per la propria incolumità: infatti la presenza statunitense nella regione, sia come alleato di Israele, sia tramite il dislocamento di forze militari in territorio saudita e nel bacino del Golfo, spinge il governo di Ahmadinejad ad un atteggiamento aggressivo in chiave difensiva e genera ulteriori critiche verso la condotta della dinastia dei Saud.

Questo delicato equilibrio di forze è messo alla prova e minacciato dagli eventi che nell’ultimo decennio hanno sconvolto la regione vicino-orientale.

Da un lato la presenza di Hamas sulla striscia di Gaza e il fermento di Hezbollah in Libano. L’Iran è accusato dagli Stati Uniti di fornire armi e aiuti ad entrambi i movimenti, ad Hamas in chiave strategica anti-israeliana, ad Hezbollah con la stessa funzione e in quando movimento di matrice sciita. D’altra parte il Dipartimento di Stato statunitense identifica tra i finanziatori di Hamas l’Arabia Saudita stessa, fattore questo che complica ulteriormente l’intricata situazione internazionale del Regno dei Saud.

In secondo luogo l’attacco statunitense in Iraq del 2003 e soprattutto gli eventi che a questo sono seguiti: se da un lato, infatti, l’Arabia Saudita non ha mai avuto rapporti particolarmente stretti con Saddam Hussein, dall’altro il declassamento che il sunnismo ha ricevuto nel Paese a vantaggio della popolazione sciita, in seguito al rovesciamento del regime di Saddam, non può che creare disappunto nel Regno dei Saud. In questo senso la politica dell’amministrazione Bush in Iraq non sembra aver considerato attentamente il fattore sciita. Infatti se in Iraq si dovesse rafforzare il governo dello sciita Nouri al-Maliki, si verrebbe a creare nel Vicino Oriente un blocco sciita che, partendo dall’Iran, proseguirebbe lungo l’Iraq, passando per la Siria (sciita solo nella figura della sua dirigenza, ma vicina politicamente all’Iran) e terminando in Libano (dove la presenza sciita è notevole) e a Gaza (dove Hamas gode del supporto iraniano).

Inoltre l’Iran si sta muovendo parallelamente lungo le vie del cosiddetto soft power, intromettendosi nella politica saudita (ma anche nello Yemen, in Bahrein, in Libia, in Algeria) per rafforzare le popolazioni sciite locali. In Arabia Saudita la già scarsa partecipazione politica diventa nulla per la minoranza sciita, che dal punto di vista sociale ed economico risulta fortemente svantaggiata. Le autorità saudite vietano alla comunità sciita di celebrare le proprie festività e di costruire moschee nel Paese, ad eccezione di alcune aree particolari. In questa situazione l’Iran interviene con aiuti e finanziamenti alla popolazione sciita, che a sua volta sembra accogliere con favore questo supporto. D’altra parte, anche l’Arabia Saudita è impegnata nel finanziamento e nella costruzione di scuole Wahabite in altri Paesi, con il compito di diffondere la dottrina della corrente dei Saud. Questo tipo di politica soft non prevede l’uso della forza, ma può dare origine in alcuni casi a scontri veri e propri.

Un esempio di tali dinamiche si può vedere negli avvenimenti della fine del 2009 tra Yemen e Arabia Saudita. Il governo di Sana’a, infatti, ancora negli anni ’90 aveva armato e finanziato l’imam Yahya al-Houthi, di parte sciita, inviandolo nella regione settentrionale di Sa’adah con il compito di contenere e contrastare il proselitismo Wahabita attivo nella regione. Con il tempo, però, al-Houthi si pose alla guida di un movimento di rivendicazione dell’indipendenza di Sa’adah dallo Yemen. Il governo yemenita, allora, dopo aver accusato l’Iran di finanziare il movimento di al-Houthi, chiamò in aiuto l’Arabia Saudita, il cui esercito ha effettuato tra novembre e dicembre del 2009 diverse incursioni nel nord dello Yemen, fino a schiacciare i guerriglieri di al-Houti. Ahmadinejad, da parte sua, non ha tardato a criticare l’intervento saudita nello Yemen, chiedendo provocatoriamente per quale motivo l’Arabia Saudita non si sia dimostrata altrettanto pronta ad intervenire durante i bombardamenti di Gaza da parte dell’esercito israeliano tra la fine del 2008 e l’inizio del 2009; l’Arabia Saudita ha risposto accusando l’Iran di intromissione negli affari interni yemeniti.

Alcune conclusioni

Alla luce di quanto appena raccontato emerge chiaramente come gli accordi ufficiali tra Iran e Arabia Saudita, volti allo sviluppo di una politica di stabilità e di cooperazione anche economica, celino in realtà una complessa rete di schermaglie, accuse, disaccordi che, nella migliore tradizione della guerra fredda, si ripercuotono su altri attori internazionali senza sfociare, per ora, in uno scontro diretto. Ne sono esempi concreti il caso dello Yemen appena descritto o l’Iraq post-Saddam, con la guerriglia tra la maggioranza sciita e le comunità sunnite, entrambe supportate rispettivamente da Iran e Arabia Saudita. E’ un altro valido esempio la diffusione, ad opera del governo di Riad, di scuole di matrice wahabita in diversi Paesi arabi, così come la propaganda sciita e il supporto da parte iraniana alle comunità sciite in diversi Paesi a maggioranza sunnita, tra cui l’Arabia Saudita.

In ultima analisi tutte queste incomprensioni sembrano nascere, oltre che da volontà di autoaffermazione di tipo culturale e religioso (civiltà araba-civiltà persiana, sunnismo-sciismo), soprattutto da un fattore che domina da decenni lo scenario vicino-orientale: la paura.

Da un lato infatti, l’Arabia Saudita teme la continua espansione dell’influenza iraniana nella regione, mentre dall’altro l’Iran teme l’avvicinamento delle monarchie del Golfo agli Stati Uniti.

Inoltre non va dimenticato che entrambi i regimi attivi nei due Paesi si stanno confrontando con una crescente opposizione interna: da un lato i Saud, le cui politiche di avvicinamento agli Stati Uniti contrariano fortemente parte dell’ortodossia religiosa e il movimento al-Qaida, presente nel Paese malgrado gli sforzi delle forze di sicurezza interne per contrastarlo; dall’altra il governo di Ahmadinejad, criticato sempre più apertamente da ampi strati della società, come dimostra l’ondata di proteste levatasi in occasione delle recenti elezioni iraniane.

La paura di aggressioni dall’esterno unita all’instabilità crescente dei due regimi sembra spingere dunque Iran e Arabia Saudita verso posizioni sempre più aggressive e contrastanti. Così, ad esempio, il programma iraniano di sviluppo in campo nucleare sta causando un’analoga corsa al nucleare da parte dei Paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo (di cui l’Arabia Saudita è l’elemento più importante), che hanno già chiesto supporto all’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA) per lo sviluppo di un reattore nucleare.

L’equilibrio mantenuto nella regione dall’interconnessione di interessi strategici ed economici, che vede l’esuberanza iraniana moderata dall’alleanza tra Arabia Saudita e Stati Uniti, non ha ancora provocato scontri diretti tra i due Paesi. Tuttavia, la costante instabilità dell’intera regione e dei governi delle due potenze vicino-orientali potrebbe portare ad un crescente scontro tra due Paesi dotati di risorse energetiche e di armamenti ingenti e moderni. Finora gli attriti sono sfociati in scontri armati decentrati, coinvolgendo attori diversi, ma non è escluso che una crescente ostilità, alimentata anche dagli avvenimenti bellici che stanno avvenendo in varie zone della regione, possa portare a conseguenze più gravi.

Lo scontro tra Iran ed Arabia Saudita sembra inserirsi, dunque, nel complesso mosaico delle vicende vicino-orientali, interconnettendosi a queste, alimentandole e traendo contemporaneamente da queste alimentazione. Il fatto che due potenze come Iran ed Arabia Saudita si trovino in un tale stato di terrore, dimostra come sia l’autoritarismo interno sia l’aggressività verso l’esterno non sembrino garantire, nel Vicino Oriente, quella stabilità e sicurezza che tutto il mondo auspica, e soprattutto come sia Iran sia Arabia Saudita risultino attualmente inadeguate al ruolo di Paese-guida nella regione del Golfo a cui entrambe ambiscono.

* Giovanni Andriolo è dottore in Relazioni internazionali e tutela dei diritti umani (Università degli studi di Torino)
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dimanche, 09 mai 2010

Roberto de Mattei: "Le rêve de Soliman s'accomplit!"

mattei.jpgWolfgang PHILIPP:

Roberto de Mattei: “Le rêve de Soliman s’accomplit”

 

Professeur d’histoire à Rome, Roberto de Mattei s’est penché sur les effets qu’aurait une adhésion turque à l’UE

 

“La Turquie en Europe: bénéfice ou catastrophe?”: tel est le titre d’ouvrage récent de Roberto  de Mattei, professeur d’histoire à Rome, qui mériterait bien de devenr lecture obligatoire pour tout Européen digne de ce nom.

 

La Turquie est liée indissolublement à l’islam, qui la domine entièrement. Venus d’Asie centrale, les Turcs se sont fixés jadis en Anatolie et ont étendu le territoire de leur souveraineté en menant beaucoup de guerres. Tous ces actes de belligérance ont été motivés par la religion: la soumission d’autres peuples participe de la “guerre sainte”. Aux 16ème et 17ème siècles, les Turcs  ont conquis de vastes régions d’Europe du Sud-Est et soumis la Hongrie et Belgrade. L’Empire ottoman, finalement, étendait son territoire sur six millions de km2. Dans le texte d’une déclaration de guerre à l’Empereur d’Allemagne, Léopold, on a pu lire cet ordre: “Attends-nous dans ta ville de résidence, Vienne, pour que nous puissions venir t’y décapiter... et faire disparaître de la Terre jusqu’à la dernière créature de Dieu, pourvu qu’elle soit incroyante”.

 

Les Turcs n’ont pas pu donner suite à cette menace: ils ont été battus, si bien que le déclin de l’Empire ottoman a commencé. Mais il est demeuré en place jusqu’en 1924 au titre de califat. Mustafa Kemal l’a supprimé et a transformé la Turquie en une “république laïque” mais une république laïque où la liberté de culte n’était accordée qu’aux seuls citoyens de confession  musulmane. Atatürk a développé un programme systématique d’éradication du christianisme. On se rappelle surtout de l’expulsion et du massacre des Arméniens chrétiens et de l’expulsion des Grecs de la région égéenne de Smyrne entre 1916 et 1923. Le nombre des morts et des disparus est estimé entre 200.000 et un million. La Turquie a été pratiquement purgée de toutes ses populations chrétiennes, alors que l’Anatolie avait été auparavant un pays  entièrement chrétien.

 

Récemment, la Turquie s’est détournée des réformes préconisées par Atatürk pour infléchir le pays vers la laïcité. Dans tous les domaines de la vie, l’islamisation progresse en Turquie  aujourd’hui. Le “Diyanet”, l’office mis en place par Atatürk pour s’occuper des questions religieuses a pour fonction  d’asseoir la domination de l’Etat. Il occupe 90.000 imams payés  par l’Etat et fait fonctionner 85.000 mosquées actives. Des “fraternités” s’affairent à répandre la sharia dans le monde. La volonté de domination de l’islam est à mettre en parallèle avec l’ancienne volonté “socialiste” de promouvoir la révolution partout dans le monde. 

 

Ce fait, fondamental et observable, nous permet de déduire que, pour les Turcs islamistes, tous les autres peuples de la Terre sont des ennemis qui devront un jour être soumis par la ruse, par la tromperie ou par la guerre. Le premier ministre Erdogan avait un jour cité le poète Ciya Gökalp: “Les minarets sont nos baïonnettes, les dômes sont nos casques, les mosquées sont nos casernes et les croyants sont nos soldats”. Le même Erdogan avait décrit en 2008, lors de son fameux discours tenu à Cologne en Allemagne, l’assimilation des Turcs  comme “un crime contre l’humanité”. Le concept de “crime contre l’humanité” avait été forgé en 1946, lors du procès de Nuremberg. Il servait de base à l’argumentaire de l’accusation qui se focalisait sur l’élimination des juifs par les nationaux-socialistes. Inouïe était l’impudence qu’il y avait à utiliser justement ce concept-là en Allemagne aujourd’hui et à accuser cette dernière d’adopter, par sa politique volontariste d’assimiler les immigrés turcs, une attitude qui corresponde à ce concept de “crime contre l’humanité”; et aucun homme politique allemand n’a osé fustiger comme il se devait cette impudence du chef du gouvernement turc.

 

Pour Roberto de Mattei, il n’y a aucun doute: l’islam turc n’a pas d’autre intention que de soumettre tous les peuples d’Europe jusqu’à ce qu’advienne un califat européen. Les autorités turques rejette les politiques d’assimilation proposées par les Etats européens et contribuent ainsi à faire émerger partout des sociétés parallèles, en marge de la société hôte. A Berlin, par exemple, ces sociétés parallèles font en sorte que les élèves des premières classes dans  les écoles parlent à peine allemand. Pour répondre à la question qui forme le titre de son livre, l’auteur, qui est vice-président du “Conseil National de la Recherche” depuis 2004, équivalent italien du prestigieux Institut Max Planck d’Allemagne, estime, après investigation, qu’une adhésion de la Turquie à l’UE serait bel et bien une catastrophe. Roberto de Mattei cite ainsi Oral Öger, un député européen allemand d’origine turque, qui avait déclaré ce qui suit en 2004: “Ce que le Sultan Süleyman avait commencé en 1683 par le siège de Vienne, nous l’achèverons par la vigueur de nos hommes et la santé de nos femmes en triomphant des habitants autochtones”. L’AKP, parti d’Erdogan, n’a pas pour but d’ “européaniser” la Turquie mais de désoccidentaliser et de “turquifier” l’Europe. Cet dessein ne constitue pas simplement l’un des objectifs du gouvernement turc actuel, et serait dès lors passager, mais résulte d’un processus long et dangereux qui s’étend depuis plus de mille ans. Notre auteur, historien, rappelle qu’en islam religion et politique sont indissolublement lié. Si l’on part du principe des Etats démocratiques, qui séparent la religion et la politique, on se méprend totalement. 

 

Malheureusement Roberto de Mattei ne nous livre aucune réflexion quant au fait que les politiciens européens ignorent délibérément les dangers et les évidences ou, pire, travaillent à favoriser la conquête islamo-turque de notre propre continent. Dans certains quartiers de Berlin, la langue turque est devenu la deuxième langue officielle. On observe des phénomènes semblables dans tous les pays européens, mais surtout en Allemagne. La manière dont les politiciens allemands se montrent insouciants envers ce qu’il faut bien appeler la conquête turco-islamique s’assimile à la trahison. Les politiciens allemands, tous partis confondus, estiment que leur tâche principale consiste à faire bonne figure sur les podiums internationaux, tout en ignorant les intérêts de leur propre peuple. Le livre de Roberto de Mattei peut nous aider à extirper cette attitude de félonie, en en répandant les arguments au sein de la population.

 

Wolfgang PHILIPP.

(article paru dans “Junge Freiheit”, Berlin, n°18/2010).

 

Source:

Roberto de MATTEI, Die Türkei in Europa – Gewinn oder Katastrophe?, Resch Verlag, Gräfelding, 2010, 152 p., 13,90 euro. 

Nieuwe stap in hervorming van grondwet in Turkije

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Nieuwe stap in hervorming van grondwet in Turkije        

 

 

ANKARA 07/05 (AFP) = Het Turkse parlement heeft vrijdag een hervorming van de grondwet goedgekeurd die de weg opent naar een referendum over een pakket amendementen op de grondwet. Volgens de oppositie kan de islamgezinde regering meer macht verwerven met de amendementen.

De hervorming werd met 336 van de 550 stemmen goedgekeurd, meer dan de 330 stemmen die vereist waren, maar minder dan de tweederdemeerderheid die tot een definitieve goedkeuring zonder referendum had geleid.

De amendementen willen vooral de macht van de gerechtelijke hiërarchie en het leger inperken, twee instellingen die de regering vijandig gezind zijn. Ze zullen nu aan de president van de republiek worden voorgelegd, die wellicht spoedig een referendum zal aankondigen. De Turkse premier Recep Tayyip Erdogan had donderdag verklaard dat over de grondwetshervorming een volksraadpleging gehouden zou worden als ze geen tweederdemeerderheid in het parlement zou halen.
   

mardi, 04 mai 2010

L'UE et sa politique de deux poids deux mesures

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Andreas MÖLZER:

L’Union Européenne et sa politique des deux poids deux mesures

 

La Turquie est traitée avec tact tandis que la Serbie doit subir vexations et rigueur

 

Les ambitions européennes de la Serbie seraient en train de se concrétiser: le pays s’est excusé récemment, et de manière formelle, pour le massacre de Srebenica, attitude d’humilité et de contrition que l’on chercherait en vain chez cet autre pays candidat à l’adhésion qu’est la Turquie, mais dont la candidature est toutefois largement contestée. En Turquie, on est menacé de sanctions si l’on ose débattre du génocide arménien.

 

L’interprétation des critères de Copenhague est arbitraire: on reproche à Belgrade de ne pas coopérer suffisamment avec le Tribunal de La Haye tandis que les atteintes aux droits de l’homme à Ankara sont considérées comme des faits divers négligeables. Mais ce n’est pas une nouveauté, ce n’est pas la première fois que l’UE pratique une politique de deux poids deux mesures. En Bosnie, on veut contraindre plusieurs groupes ethniques à cohabiter au sein d’un même Etat multiculturel alors qu’au Kosovo l’UE trouve tout naturel et légitime qu’un groupe ethnique se sépare d’un autre Etat. Le délégué de l’UE au Kosovo s’aligne sur le Plan Ahtisaari, déjà mis ad acta, et se mêle des élections communales serbes: voilà qui s’avère hautement problématique et contredit le devoir de neutralité dont doit faire montre tout médiateur, rôle que l’UE a la prétension de tenir.

 

La Serbie, au contraire de la Turquie, est historiquement et culturellement  européenne et constitue un Etat appelé à jouer un rôle clef dans la sécurité de tous les Balkans. Bien sûr, on ne doit pas répéter l’erreur commise lors de l’adhésion trop précoce de la Bulgarie et de la Roumanie à l’Union: il faut désormais que tous les critères d’adhésion soient remplis sans exception.  Mais, en revanche, l’UE n’a pas le droit d’exiger de la Serbie, pour prix de sa préparation à une éventuelle  adhésion, qu’elle reconnaisse l’indépendance du Kosovo, obtenue au mépris du droit des gens.

 

Andreas MÖLZER.

(article paru dans ézur Zeit”, Vienne, n°16/2010; trad. franç.: Robert Steuckers). 

mercredi, 28 avril 2010

Turken herdenken massamoorden op Armeniërs

Turken herdenken voor de eerste keer massamoorden op Armeniërs        

ISTANBOEL 24/04 (AFP) - Mensenrechtenactivisten, intellectuelen en Turkse artiesten hebben zaterdag in Istanboel voor de eerste keer op publiekelijke wijze de massamoorden op Armeniërs (1915-17) herdacht. Hiermee wordt een belangrijk taboe in Turkije doorbroken.
   

Istanbul.jpgDe afdeling uit Istanboel van de Vereniging voor Mensenrechten (IHD) organiseerde een herdenking voor de razzia op 220 leden van de Armeense intellectuele elite op 24 april 1915, het begin van de massamoorden.

Honderden manifestanten trokken, onder de slogan "Nooit meer", naar het station van Haydarpasa, vanwaar de eerste deportaties plaatsvonden. De betogers, begeleid door politie en talloze camera's, droegen zwart-witfoto's van gedeporteerden waarvan het merendeel nooit meer gezien werd. Een groep tegenbetogers werd door de politie op voldoende afstand gehouden. Rond 18.00 uur vindt een tweede betoging plaats in het hart van het Europese deel van Istanboel.
   

Ook in de Armeense hoofdstad Erevan zijn zaterdag duizenden mensen op straat gekomen om de 95ste verjaardag van de massamoord op de Armeniërs te herdenken. Volgens Armenië zijn meer dan 1,5 miljoen mensen omgekomen tijdens de genocide, Turkije houdt het aantal op 300.000 à 500.000 slachtoffers. Volgens Ankara werden ze echter niet het slachtoffer van een genocide, maar kwamen ze om tijdens de chaos van de laatste jaren van het Ottomaanse rijk.

MPK/MPE/(PLS)/

dimanche, 25 avril 2010

Akute Kriegsgefahr im Libanon?

LIBAN-30-07-08.jpgAkute Kriegsgefahr im Libanon?

Niki Vogt

 

Ex: http://info.kopp-verlag.de/

Der US-Kongressabgeordnete Adam Schiff war am Mittwoch, den 14. April, Gastgeber einer kleinen, aber feinen Runde. Einer der Gäste im Kreis des Ausschusses der »Freunde Jordaniens im Kongress« im »US-House of Representatives«, war niemand Geringerer als König Abdullah II. von Jordanien. Seine Ansprache dort war nach Auskunft eines der Anwesenden »höchst ernüchternd«.

König Abdullah zeigt sich äußerst besorgt, dass ein bewaffneter Konflikt zwischen Israel und der Hisbollah im Libanon bevorstehe. Der König benutzte das englische Wort »imminent«, was »unmittelbar bevorstehend« bedeutet.

Die Hisbollah hat seit der Wahl im letzten November Sitz und Stimme im libanesischen Parlament. Sie unterhält seitdem offizielle Kontakte und Beziehungen zu Regierungen anderer Staaten wie beispielsweise Frankreich. Ein Krieg zwischen dem Libanon und Israel würde alle Bemühungen um Normalisierung und Einrichtung von diplomatischen Beziehungen wie zwischen USA und dem direkt daneben liegenden Syrien zunichte machen.

Die Kriegsgerüchte sind nicht neu. Schon am 4. Februar veröffentlichte der Christian Science Monitor unter der Überschrift »Was steckt hinter den erneuten Kriegsängsten in Israel und Libanon?« die säbelrasselnden Kriegstreibersprüche des israelischen Außenministers Liebermann gegen den Libanon – und Syrien. Öffentlich drohte Liebermann dem syrischen Präsidenten Bashar Assad, dass dieser in einem Krieg mit Israel nicht nur der Verlierer sein werde, sondern mit ihm auch seine ganze Familie entmachtet werde.

Grund für die Wut der Israelis ist das offensichtliche Erstarken der Hisbollah, ihr unaufhaltsamer militärischer Aufbau und die Tatsache, dass sich die ehemaligen Underdogs mit dem Terroristen-Image nun als ernstzunehmende politische Gegenspieler auf dem Parkett der Weltpolitik zu etablieren beginnen.

Die Bedrohungslage fühle sich im Libanon genauso an, wie in den Monaten vor der Israelischen Invasion 1982. Jeder wusste, dass sie kommen würde, sagte Ghazi Aridi, der Verkehrsminister des Libanon. Das Land hat sich seitdem stabilisiert, hat eine Periode relativer Stabilität genossen und erstmals 1,9 Millionen Touristen in der schönen Landschaft am Mittelmeer willkommen geheißen. Langsam verblassen die Bilder der zerschossenen Altstadt Beiruts im kollektiven Gedächtnis der Europäer, man hofft auf noch bessere Touristenzahlen in diesem Jahr.

Die Nachrichtenagentur AFP meldete am 15. April, die US-Regierung habe zufällig ebenfalls am Mittwoch, als der jordanische König zu Gast war, eine Warnmeldung herausgegeben, es seien möglicherweise Scud-Raketen an libanesische Hisbollah-Milizen verkauft worden. Dies stelle ein »erhebliches Risiko« für den Libanon dar. Man werde diesem Verdacht nachgehen, hieß es.

Die kuwaitische Zeitung Al-Rai Al-Alam hatte vor ein paar Wochen Informationen erhalten, die behaupteten, die Israelis hätten Scud-D-Raketen an der syrisch-libanesischen Grenze gesichtet und wurden nur durch die Amerikaner davon abgehalten, dort alles in Grund und Boden zu bombardieren.

Israels Präsident Shimon Peres hatte am vergangenen Dienstag Syrien vorgeworfen, es versorge die Hisbollah mit Scud-Raketen. Ein nicht genannter höherer US-Regierungsbeamter sagte gegenüber AFP, es sei ganz im Gegenteil überhaupt nicht klar, ob eine solche Lieferung bisher stattgefunden habe.

Währenddessen verbreitete Präsident Peres über die Sender: »Syrien gibt vor, den Frieden zu wollen, liefert aber gleichzeitig Scud-Raketen an die Hisbollah, deren einziges Ziel die Bedrohung Israels ist.« – Sprach’s und flog direkt darauf nach Frankreich, um mit Präsident Sarkozy dieses Thema zu erörtern. Eine probate Strategie.

Warum also das alles?

Eine Erklärung könnte sein, dass die Obama-Regierung mühevoll und vorsichtig Beziehungen zu Syrien aufgebaut hatte, um das Land als Vermittler in die festgefahrene Pattsituation der Friedensgespräche im Nahen Osten einzubeziehen. Es sollten in den nächsten Tagen Diplomaten ausgetauscht werden. Obama hatte bereits Robert Ford als ersten Botschafter für Damaskus ernannt.

Das musste nun erst einmal vertagt werden.

Ein herber Rückschlag für Obama, der seiner von Israel ausgebremsten Vorzeige-Friedensinitiative im Nahen Osten neuen Schub verleihen wollte.

Shlomo Brom, der ehemalige Leiter des Planungsstabes der israelischen Armee, formulierte es vor zwei Woche deutlicher: »Das strategische Planziel im nächsten Krieg ist es, zu verstehen, dass man das Problem nicht in einem Schritt lösen kann. Der einzige Weg, es zu lösen, ist, den Libanon zu besetzen und Hisbollah rauszukicken. Das ist nicht einfach, und Israel will den Preis dafür nicht bezahlen.«

»Beim nächsten Mal wird vielleicht die UN uns bitten, aus Nordisrael wieder abzuziehen – anstelle Israel, den Südlibanon wieder zu räumen«, meinte Abu Khalil, ein 22-jähriger Hisbollah-Kämpfer.

»Ich glaube nicht, dass Israel jetzt einen Krieg brauchen kann, und der Hisbollah juckt auch nicht das Fell vor lauter Übermut«, meint Timur Goksel, ein ehemaliger UNIFIL-Funktionär. »Natürlich kann Israel den Libanon aufmischen, aber das wird Israel teuer zu stehen kommen. Die Hisbollah wird aus jeder Ecke feuern, und es wird viel mehr Tote auf israelischer Seite geben als 2006.«

Die Lunte am Pulverfass Nahost glimmt.

 

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Quellen:

http://www.thewashingtonnote.com/archives/2010/04/jordans_king_sa/

http://www.politico.com/blogs/laurarozen/0410/The_Scud_through_his_Syria_nomination.html?showall

http://thecable.foreignpolicy.com/posts/2010/04/09/congress_wants_to_know_is_syria_rearming_hezbollah

http://www.google.com/hostednews/afp/article/ALeqM5gNU1tGuyPXPQO9mnAHavQp-eZ0UQ

http://www.csmonitor.com/World/Middle-East/2010/0204/What-s-behind-renewed-war-jitters-in-Israel-Lebanon/(page)/2

 

Mittwoch, 21.04.2010

Kategorie: Politik, Terrorismus, Allgemeines

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lundi, 19 avril 2010

Les thèses postsionistes de Shlomo Sand sur "l'invention du peuple juif"

Robert STEUCKERS :

Les nouvelles thèses postsionistes de Shlomo Sand sur « l’invention du peuple juif »

 

Brève conférence prononcée à la tribune du « Cercle de Bruxelles », le 16 mars 2010

 

shlomosand_1240433954.jpgShlomo Sand, historien israélien attaché à l’Université de Tel Aviv, ancien étudiant de l’Ecole des hautes études en sciences sociales de Paris, par ailleurs spécialiste de l’œuvre de Georges Sorel, a sorti en 2008 un ouvrage aux éditions Fayard, intitulé Comment le peuple juif fut inventé, dont la réception, d’abord timide, vient d’être « boostée » par la sortie de l’ouvrage en livre de poche, dans la collection « Champs » chez Flammarion, où vient également de sortir son volume précédent, datant de 2006 et intitulé Les mots et la terre – Les intellectuels en Israël. Ces deux livres sont de véritables pavés dans la mare, dans la mesure où ils bouleversent bien des idées reçues, des vérités propagandistes ou des certitudes religieuses, juives ou autres. Tout ouvrage secouant de la sorte autant de certitudes établies mérite évidemment la lecture. Mais une lecture, si possible, qui resitue la matière dans son contexte, dans le contexte de son éclosion au sein des débats qui animent depuis près d’un quart de siècle la scène intellectuelle israélienne, voire de la diaspora juive toute entière.

 

D’abord, et j’anticipe ici mon exposé qui sera prononcé bientôt à Genève pour le Cercle Proudhon, il me paraît nécessaire de redéfinir ce qu’est le sionisme et de le resituer dans le contexte de son émergence dans la diaspora du 19ième siècle et sur la terre palestinienne. Généralement, l’historiographie simpliste véhiculée par les médias et le monde journalistique nous campe un conflit binaire, opposant, d’une part, les protagonistes d’un intifada permanent et, d’autre part, une armée israélienne condamnée à perpétuité à des opérations musclées de maintien de l’ordre. Ce conflit binaire, où les uns comme les autres se parent de toutes les vertus et diabolisent leurs adversaires, n’est pas aussi schématique qu’on en est venu à le croire au fil de centaines sinon de milliers d’émissions télévisées qui ne brillent généralement pas par la profondeur de leurs analyses. Si le sionisme et le nationalisme palestinien sont aujourd’hui les forces les plus visibilisées du conflit israélo-arabe, on omet de tenir compte de bon nombre de facteurs qui ont pourtant contribué à sa genèse et qui influent encore et toujours, directement ou indirectement, sur son déroulement.

 

L’actuel conflit israélo-palestinien ne peut se comprendre dans sa plénitude que si l’on connaît bien toutes les étapes du développement de l’idéologie et de la pratique sionistes ; tous les aléas du nationalisme palestinien, lancé par le Mufti de Jérusalem à la fin des années 20 du 20ième siècle pour se poursuivre après 1948 avec la création du Fatah, avec les vicissitudes de son histoire et avec la création assez récente de son ennemi, le Hamas ; toutes les positions successives des multiples représentants de la dynastie hachémite, depuis leur engagement aux côtés de l’empire britannique pendant la première guerre mondiale avec le fameux Lawrence d’Arabie, avec les tentatives de Fayçal de se faire proclamer roi de Syrie en se heurtant aux Français dans les années 20, avec la politique des rois jordaniens, issus du même clan, en 1948 et face aux réfugiés palestiniens après le désastre arabe de juin 1967 ; toute l’évolution du nationalisme grand-syrien (dont le Mufti fut au départ un adepte), depuis la grande révolte des années 20 jusqu’aux positions d’Hafez El-Assad et de son successeur. On oublie généralement que la notion de Palestine était bien floue sous l’empire ottoman et qu’on parlait plutôt de vilayet et de sandjak de Damas ou de Jérusalem, englobant ces entités administratives de la Sublime Porte dans un ensemble grand-syrien, bien plus vaste dans ses dimensions.

 

Cinq vagues d’immigration juive en Palestine

 

Le sionisme va s’affirmer après cinq vagues d’immigrants juifs.

La première de ces vagues commence en 1881, immédiatement après l’assassinat du Tsar Alexandre II, qui déclenche, partout dans l’empire russe, des débordements antijuifs.

La seconde vague arrive après l’échec de la révolution russe de 1905, consécutive à l’effondrement de l’armée et de la marine russes face au Japon, nouvelle puissance dans la zone pacifique. Cette immigration de 1905 est fortement teintée de socialisme révolutionnaire et de marxisme. Elle tentera d’infléchir l’idéologie sioniste dans un sens socialiste, voudra faire d’une Palestine fortement judaïsée, par l’effet du Retour, un modèle de société idéale, un système de nouveaux phalanstères socialistes et égalitaires qu’aurait été le réseau des kibboutzim. Elle heurtera la sensibilité traditionnelle des habitants autochtones, musulmans, chrétiens et juifs (l’ancien peuplement, dit « Vieux Yishuv »), créant de la sorte les premiers ferments de l’hostilité que voueront et la population arabe musulmane/chrétienne et les traditionnalistes juifs à l’endroit des nouveaux immigrants.

La troisième vague arrive après la révolution russe de 1917 et compte, cette fois, bon nombre de non communistes, de libéraux voire de conservateurs dont certains se mueront, tendances de l’époque obligent, en nationalistes virulents.

La quatrième vague arrive après la prise du pouvoir en Allemagne par les nationaux-socialistes et lorsque l’attitude générale à l’endroit des juifs se détériorera dans des pays comme la Pologne, la Hongrie ou la Roumanie.

La cinquième vague arrive après 1945. On connaît l’épisode du navire « Exodus », dont on a tiré des films et qui fait désormais partie de la mythologie sioniste. Elle consiste essentiellement en « personnes déplacées » qui fuient surtout les systèmes soviétisés qui s’instaurent en Europe centrale et orientale.

 

Shlomo_Sand.jpgL’hétérogénéité relative de ces cinq vagues d’immigration en Palestine fait du sionisme une idéologie à facettes multiples. Certains historiens comptent jusqu’à une trentaine de nuances, exprimées par des partis, des groupes, des cénacles, etc. Grosso modo, pour faciliter la suite du présent exposé (qui n’est pas consacré au sionisme et à ses nuances), disons qu’émergent, dès la création de l’Etat d’Israël une gauche, incarnée par Ben Gourion et centrée autour du Mapai socialiste/travailliste. En théorie, cette gauche souhaite une fusion entre les immigrants juifs et les Arabes autochtones. Après 1948, cette fusion n’aura jamais lieu car personne ne la désirait vraiment : ni les immigrants juifs venus d’Europe et ayant vécu dans des Etats modernes, au style de vie très différent de celui des naturels du pays, ni les Arabes qui adoptent le « rejectionnisme » préconisé par le Mufti de Jérusalem. Cette gauche travailliste restera longtemps au pouvoir, jusqu’en 1977, lors de l’avènement d’une nouvelle coalition de droite, le Likoud, mené par Menahem Begin.  

 

Jabotinsky et l’émergence de la droite sioniste

 

Face à cette première gauche travailliste, qui s’est désintégrée progressivement, à coup de querelles et de scissions, au cours des années 70 après la guerre du Yom Kippour, une droite sioniste voit le jour dès les années 20, principalement sous l’impulsion d’un idéologue, très féru de littérature, surtout de littérature russe, Vladimir Jabotinsky, issu de la diaspora juive de Lituanie (Vilnius). Cet idéologue majeur de la première droite sioniste pose un constat que les historiens ont ultérieurement qualifié de « pessimiste ». Pour lui, la fusion judéo-palestinienne, annoncée à cors et à cris par la propagande des gauches sionistes, n’aura jamais lieu, en dépit des vœux pieux d’une gauche idéaliste, rousseauiste et phalanstérienne. Jabotinsky édulcorera son langage au fil des décennies, ne basculera jamais dans un extrémisme violent et demeurera toujours fidèle à l’alliance anglaise, contrairement à certains de ses fidèles, qui se détourneront de lui, et déclareront la guerre aux Anglais, pariant parfois sur une alliance tactique avec les futures puissances de l’Axe Rome/Berlin. Au sein de son mouvement, baptisé « révisionniste » dans les années 20 et 30 du 20ième siècle, parce qu’il « révisait » les positions du sionisme de gauche, émergera donc assez rapidement une scission, dite « maximaliste », portée par des figures plus aventurières telles Avraham Stern, qui préconisera, à l’instar de l’IRA irlandaise, la révolte générale contre la présence mandataire anglaise et finira assassiné par les services secrets britanniques, le 12 février 1942. Arrivé en Palestine dans les bagages de l’armée polonaise du Général Anders, Menahem Begin prend le relais de Stern et, autour d’une nouvelle structure, le LEHI, relance dès 1944  (donc avant la défaite finale de l’Axe !!) la lutte contre les Britanniques, encore en guerre contre les Allemands en Italie et en Normandie. L’inspiration du LEHI, dont Shamir faisait également partie, provient, comme celle de Stern, du nationalisme irlandais de Michael Collins et du terrorisme russe de la fin du 19ième siècle  (avec, en sus, d’autres sources, russes, polonaises, françaises/blanquistes, etc.). Ce qui étonne l’observateur européen actuel, habitué aux et abruti par les schémas véhiculés par les médias, c’est la proximité de cette droite sioniste avec les mouvements totalitaires allemands et italiens et les contacts qui ont eu lieu entre les services de ces pays et les militants sionistes de droite. Le sionisme actuel, en fait, ne peut pas se donner un brevet d’antifascisme pur ou même d’antinazisme, alors qu’il souhaite, officiellement, que la planète entière s’en donne un.  

 

L’idéologie postsioniste est née du choc ressenti par une bonne moitié de l’opinion publique israélienne lors de l’accession du cartel de Begin au pouvoir en 1977. La filiation idéologico-politique de Begin remonte au Betar, à l’Irgoun et au LEHI. Shamir, lui, était intimement lié au LEHI, successeur du Groupe Stern, inspiré par l’IRA et par la pratique des assassinats mise au point par Michael Collins (et dont procède également le dernier assassinat en règle commis, semble-t-il, par des agents du Mossad contre un leader du Hamas dans les Emirats). Pour l’opinion israélienne inféodée ou influencée par les travaillistes du Mapai, c’était comme si, en 1977, les « fascistes » ou les « terroristes » avaient pris le pouvoir en Israël. Certes, on ne parle pas de « fascisme » à l’endroit de Begin, Shamir et des autres likoudistes, mais de « sionisme militariste ».

 

L’arrivée au pouvoir du Likoud provoque un choc politique et moral

 

Toutes les questions posées par l’école postsioniste sont tributaires de ce choc politique et moral de voir arriver les anciens de l’Irgoun et du LEHI aux commandes d’un Etat qui aurait dû incarner et réaliser les aspirations utopiques des socialistes révolutionnaires russes du 19ième siècle. Les recherches de cette école ont commencé par un examen méticuleux des archives relatives aux événements de 1948, lors du heurt entre sionistes et armées arabes quelques mois avant la proclamation de l’Etat d’Israël. Pour l’école postsioniste, l’année 1948 ne se solde pas par la fuite de masses arabes palestiniennes, incitées par le Mufti et ses partisans à quitter leurs terres mais par une véritable épuration ethnique perpétrée par des maximalistes sionistes formant le noyau dur des milices juives de la Palestine mandataire, futurs cadres de l’armée israélienne. Dans un deuxième temps, les historiens postsionistes vont explorer l’univers mental et idéologique du Betar, du Groupe Stern et de l’Irgoun (ce sera la tâche principale de l’historien Colin Shindler, attaché à diverses universités anglaises). De cette manière, le passé occulté de Begin ou de Shamir a été mis en exergue. Le but était évidemment de leur nuire politiquement et de faire jouer le réflexe antifasciste pour, à terme, ramener la gauche du Mapai au pouvoir. Cette stratégie s’est montré infructueuse sur l’échiquier politique israélien car l’Etat hébreu vit désormais une alternance démocratique semblable à celle d’autres pays de la sphère occidentale. La tentative de déstabiliser la deuxième droite sioniste a permis l’éclosion d’une historiographie nouvelle qui, elle, déstabilise l’Etat tout entier, au point que des actions sont menées pour ôter la parole à certaines figures de proue du postsionisme universitaire, comme le professeur Ilan Pappe, qui, sous diverses pressions et menaces, n’a pas pu donner une leçon publique à une tribune académique de Munich au début de cette année 2010 (Ilan Pappe est l’auteur d’un livre récemment publié chez Fayard en traduction française sur l’épuration ethnique en Palestine en 1948 et l’auteur, auprès de la Cambridge University Press, d’un livre très érudit :  A History of Modern Palestine, 2006, 2nd ed.).  

 

Le postsionisme, très critique à l’égard de ce que l’on appelle désormais la « narration sioniste », s’est développé parallèlement à un retour offensif du quiétisme chez les religieux orthodoxes, dont les racines plongent dans le « Vieux Yishuv ». Pour éviter ainsi l’alliance des modérés du Mapai, attentifs aux recherches des historiens postsionistes, et des quiétistes religieux, qui gripperait la machine étatique et militaire de l’Etat hébreu, on a réanimé une force déjà présente en filigrane dans le cartel de Begin, celle d’un autre fondamentalisme ultra-orthodoxe juif, s’alignant lui, non sur le quiétisme du « Vieux Yishuv » mais sur une surenchère ultra-sioniste.

 

Une reprise des thèses de Koestler sur la « Treizième tribu »

 

Le postsionisme a en quelque sorte ouvert une boîte de Pandore : dans les milieux intellectuels israéliens, on assiste à une course à la surenchère dans la volonté de réfuter les mythes de l’histoire israélienne et juive. La seconde offensive du postsionisme ne s’attaque plus seulement aux mythes entourant l’année 1948, année de la fondation officielle de l’Etat d’Israël. Il remet en question, comme dans le livre de Shlomo Sand, la notion même de « peuple juif ». Pour les exposants de cet aspect-là du postsionisme, l’idée d’un « peuple juif » est pure fiction. En somme, cette veine du postsionisme reprend mutatis mutandis la fameuse thèse de la « treizième tribu », énoncée jadis par Arthur Koestler et qui avait fait grand scandale. Pour Koestler, le gros du peuple juif ne descendait pas des « Judéens », théoriquement chassés en 70 et en 135 par les Romains mais des Khazars, peuple turco-mongol installé entre Volga et Don et converti volontairement au judaïsme avant l’an 1000. La masse des juifs d’Europe orientale et surtout de l’empire russe descendrait en fait, non pas d’immigrants juifs venus de l’antique Judée, mais de ces masses de Khazars convertis. Le scandale apporté par ce livre de Koestler, pour les sionistes, vient surtout de l’impossibilité de justifier le mythe de l’Alya, du Retour à la terre des origines.

 

C’est donc ce thème, déjà ancien, que Shlomo Sand reprend aujourd’hui. Dans son livre Comment le peuple juif fut inventé, il commence par évoquer des cas concrets, comme celui d’un jeune anarchiste espagnol de Barcelone, qui, errant en France après la victoire franquiste, et à Marseille en particulier, finit par se retrouver armé dans un kibboutz à faire le coup de feu contre les Palestiniens. Il est devenu citoyen israélien sans avoir jamais été frotté au judaïsme et sans avoir les moindres racines « judéennes », justifiant un éventuel « alya ». Sand évoque ensuite l’histoire de Chotek, pauvre juif de Pologne qui subit les mécanismes d’exclusion de la synagogue parce que sa mère, plongée dans la misère, ne peut payer une place dans l’enceinte du lieu de culte. La plupart de ces exclus, pour pauvreté, basculaient dans le communisme, ou dans le sionisme communiste, et finissaient par abandonner la religion juive voire par embrasser un athéisme virulent, à l’instar de Koestler qui, lui, ne l’a pas fait par pauvreté mais par option idéologique.

 

Une méthode critique de tous les essentialismes

 

La méthode de Sand rejette ce qu’il appelle l’ « essentialisme ». Il démontre que le sionisme procède du même essentialisme que les autres nationalismes européens, notamment le nationalisme allemand. Pour le nationalisme allemand, l’essence première de la germanité réside dans le rassemblement des tribus libres autour d’Arminius, voire de Marbod, qui partent combattre les Romains et défont les légions de Varus dans la Forêt de Teutoburg. Le sionisme est, pour Sand, une transposition dans l’univers mental du judaïsme de la démarche intellectuelle qui a généré cette « narration germanique ». La fondation du peuple juif ne procédant pas, évidemment, des tribus rassemblées sous le commandement d’Arminius mais des tribus regroupées sous la houlette du Roi Salomon, de biblique mémoire. 

 

Si de telles « narrations » s’incrustent dans la mentalité d’une population, elle finira par vouloir exclure tout ce qui n’appartient pas à la matrice hypothétique de cette narration, tout ce qui ne relève pas de cette « essence ». En posant cette hypothèse, Sand reste un homme de gauche, la caractéristique majeure de toute gauche, dans cette perspective, est de rejeter de telles « essences » ou d’en montrer la vacuité. Shlomo Sand se réfère à la notion de citoyenneté, autre réflexe de gauche, telle qu’elle a été définie par l’historien allemand de l’empire romain, Theodor Mommsen. Pour celui-ci, toutes les composantes de l’empire romain fusionnaient dans le service à l’empire, ce service conférant l’honneur de la citoyenneté. Pour Mommsen, c’est ce modèle romain de citoyenneté que devait adopter le nouvel empire allemand né en 1870. Au sein de cet empire, les composantes bavaroises, prussiennes, wurtembergeoises, hessoises, mecklembourgeoises, brandebourgeoises, rhénanes, franconiennes, etc. devaient fusionner pour former une nation de citoyens, tout en abjurant les « folklores désuets ». Les juifs de l’empire allemand devaient procéder de la même manière que leurs concitoyens rhénans ou bavarois, etc., et mettre entre parenthèse leurs spécificités, devenues inutiles et relevant, de ce fait, d’un « folklore désuet ».

 

Un monothéisme qui n’a rien d’absolu

 

Dans le sillage du romantisme européen et germanique en particulier, des historiens juifs ont créé, explique Sand, une « mythistoire » qui débouchera sur le sionisme. Celui-ci est donc une pure construction de l’esprit comme est aussi construction de l’esprit le monothéisme, posé comme intransigeant et prêté au peuple juif « mythistorique ». Pour justifier sa démonstration, Sand rappelle que la Bible évoque un royaume de Judée (celui de Salomon et de sa postérité) et un royaume d’Israël, situé plus au nord, en Galilée ou dans le Sud du Liban et de la Syrie actuels. Le royaume de Judée est présenté comme « pur », comme matrice de toute l’histoire juive postérieure et comme modèle antique de l’Etat rêvé et réalisé par les sionistes. Le royaume d’Israël est posé comme syncrétique et plus avancé en matière de civilisation. Il a aussi été, visiblement, plus puissant. Les sources assyriennes en font mention, avant que l’empire assyrien ne l’absorbe dans son orbe. Syncrétique, ce royaume d’Israël demeure largement païen et ne pratique pas un monothéisme absolu : Jéhovah est bien là, mais comme patron des autres dieux, à l’instar du Jupiter romain ou du Zeus grec. A ses côtés, on honore Baal, Shamash et surtout la belle déesse Astarté.

 

La Judée, province reculée et davantage sous influence égyptienne qu’hellénique, ne sera absorbée dans l’empire assyrien que deux siècles plus tard. Les mythes qui entourent ce petit royaume, peu mentionné dans les sources antiques, sont des inventions tardives pour les historiens postsionistes : ainsi, Salomon et ses somptueux palais n’auraient jamais existé et relèverait de la « mythistoire ».  Sand , p. 172 : « Les mythes centraux sur l’origine antique d’un peuple prodigieux venu du désert, qui conquit par la force un vaste pays et y construisit un royaume fastueux, ont fidèlement servi l’essor de l’idée nationale juive et l’entreprise pionnière sioniste. Ils ont constitué pendant un siècle une sorte de carburant textuel au parfum canonique fournissant son énergie spirituelle à une politique identitaire très complexe et à une colonisation territoriale qui exigeait une autojustification permanente. Ces mythes commencèrent à se fissurer, en Israël et dans le monde, ‘par la faute’ d’archéologues et de chercheurs dérangeants et ‘irresponsables ‘, et, vers la fin du 20ième siècle, on eut l’impression qu’ils étaient en passe de se transformer en légendes littéraires, séparées de la véritable histoire par un abîme qu’il devenait impossible de combler. Bien que la société israélienne fût déjà moins engagée, et que le besoin d’une légitimation historique qui servit sa création et le fait même de son existence allât en s’amenuisant, il lui était encore difficile d’accepter ces conclusions nouvelles, et le refus du public face à ce tournant de la recherche fut massif et acharné ».

 

La Bible quitte le rayon de la théologie pour devenir un livre historique

 

De même, p. 178 : « La Bible, considérée pendant des siècles par les trois cultures de religion monothéiste, judaïsme, christianisme et islam, comme un livre sacré dicté par Dieu, preuve de sa révélation et de sa suprématie, se mit de plus en plus, avec l’éclosion des premiers bourgeons d’idée nationale moderne, à servir d’œuvre rédigée par des hommes de l’Antiquité pour reconstituer leur passé. Dès l’époque protonationale protestante anglaise, et plus encore parmi les colons puritains d’Amérique et ceux d’Afrique du Sud, le Livre des livres devint, par anachronisme nourri d’imagination enflammée, une sorte de modèle idéal pour la formation d’un collectif politico-religieux moderne (…). Et si les croyants juifs ne s’y étaient presque pas directement plongés par le passé, les intellectuels de l’époque des Lumières en ont inauguré une lecture laïque qui alla en s’élargissant. Cependant, (…) ce n’est qu’avec l’essor de l’historiographie protosioniste, dans la seconde partie du 19ième siècle, que la Bible a clairement joué un rôle clé dans le drame de la formation de la nation juive moderne. Du rayon des livres théologiques, elle est passée à celui de l’histoire, et les adeptes de la nation juive ont entrepris de la lire comme un document fiable sur les processus et les événements historiques. Plus encore, elle a été élevée au rang d’une ‘mythistoire’, qui ne saurait être mise en doute parce qu’elle constitue une évidente vérité. Elle est donc devenue le lieu de la sacralité laïque intouchable, point de départ obligé de toute réflexion sur les notions de peuple et de nation. La Bible a principalement servi de marqueur ‘ethnique’ indiquant l’origine commune de femmes et d’hommes dont les données et les composantes culturelles laïques étaient complètement différentes, mais qui étaient détestés en raison d’une foi religieuse à laquelle il n’adhéraient pratiquement plus. Elle fut le fondement de l’intériorisation de la représentation d’une ‘nation’ antique dont l’existence remontait presque à la création du monde dans la conscience du passé d’hommes qui furent déplacés et se sont perdus dans les labyrinthes d’une modernité rapide et décapante. Le giron identitaire douillet de la Bible, malgré son caractère de légende miraculeuse, et peut-être grâce à lui, a réussi à leur procurer un sentiment prolongé et presque éternel d’appartenance que le présent contraignant et pesant était incapable de fournir. Ainsi l’Ancien Testament se transforma-t-il en un livre laïque, enseignant aux jeunes enfants quels furent leurs ‘antiques aïeux’ et avec lequel les adultes eurent tôt fait de partir glorieusement vers des guerres de colonisation et de conquête de la souveraineté ».

 

Cette démonstration conduit également à considérer l’exil juif comme une invention « mythistorique ». Sand, p. 183, nous apprend que Rome ne pratiquait jamais l’expulsion générale de tout un peuple vaincu, tout au plus l’Urbs pratiquait-elle des expulsions partielles et ciblées. L’idée d’un exil provient des exagérations de l’historien latin antique de souche juive, Flavius Josèphe, qui, comme tous ses homologues historiens de l’antiquité, gonfle démesurément les chiffres : les campagnes romaines de Titus auraient fait 1,1 million de morts rien qu’à Jérusalem et, après la bataille, le général romain aurait fait 97.000 prisonniers ; la Galilée  aurait compté, à l’époque, plus de trois millions d’habitants (p. 184). Toute approche raisonnable de l’histoire antique de la région donnerait un chiffre maximal d’un million d’habitants, vu l’aridité du sol. Avant l’arrivée de la deuxième vague d’immigrants juifs dans la première décennie du 20ième siècle, les vilayets constituant l’actuelle Palestine comptaient à peine 400.000 habitants. En 132-135, à la suite de la révolte du zélote Bar Kochba, la persécution aurait été plus féroce encore mais rien n’indique une expulsion généralisée de la population. Sur cet épisode, aucun historien n’a écrit quoi que ce soit. Nous n’avons donc pas, sur cette révolte postérieure aux campagnes de Titus, d’exagérations de l’acabit de celles de Flavius Josèphe. On sait seulement que Jérusalem sera débaptisée et portera le nom romain d’Aelia Capitolina. Pour Sand, le terme « exil » signifie « soumission politique ». Les communautés juives de l’antiquité, dans le bassin méditerranéen ou en Mésopotamie ou dans la péninsule arabique, sont donc des communautés exclusivement religieuses et n’ont pas de bases ethniques.

 

Les conversions forcées du Royaume des Hasmonéens

 

Sand réfute également l’idée que les royaumes judaïques de l’antiquité ne pratiquaient pas le prosélytisme et ne procédaient pas à des conversions forcées, si bien qu’il est impossible de dire que tous les juifs  de la diaspora, avant le sionisme, étaient des descendants de « Judéens », expulsés de Judée par le « méchant Titus » (les guillemets sont de Sand). Sand prend l’exemple du royaume des Hasmonéens, le plus important royaume juif de l’antiquité. Ce royaume avait été fortement hellénisé, au point de déplaire aux Macchabées, les fondamentalistes de l’époque, qui ne toléraient aucun syncrétisme ni aucune fusion avec d’autres traditions. La révolte des Macchabées nous apprend, outre la haine féroce que vouent les fondamentalistes à tout syncrétisme impérial ou politique, que le monothéisme de ce royaume des Hasmonéens n’était pas strict, au sens où nous l’entendons aujourd’hui lorsque nous évoquons les intégristes des religions monothéistes. Pour Sand, le monothéisme hasmonéen était un monothéisme imparfait, c’est-à-dire un monothéisme qui s’était borné à limiter le nombre de dieux. Ce monothéisme lâche, l’hellénisme omniprésent dans le bassin oriental de la Méditerranée et l’universalisme, qui en découlait, s’opposaient au tribalisme juif de l’époque. L’espace du Proche Orient du temps des Hasmonéens était un espace impérial, rassemblant des populations et des ethnies diverses et hétérogènes, exactement comme de nos jours. En cas de conflit, ce royaume hasmonéen convertissait de force, ou tentait de convertir par la contrainte, les peuplades vaincues, leur imposant parfois la circoncision forcée. Sand constate que l’historiographie sioniste rejette ou escamote le fait que constituent ces conversions forcées au judaïsme car, une fois de plus, elles tendent à prouver que tous les adhérents à la confession mosaïque ne descendent pas de « Judéens purs ».

 

On a souvent dit que la conversion forcée ou le prosélytisme n’appartenaient pas à la tradition juive talmudique. C’est vrai mais ce refus de tout prosélytisme date seulement d’après 135, d’après la défaite des zélotes de Bar Kochba, quand il n’y avait plus moyen de convertir de force des tribus voisines ou des résidents étrangers. En 104 av. J. C., Aristobule, roi juif hellénisé, conquiert la Galilée et convertit de force une tribu, probablement arabe, ou au moins sémitique, les Ituréens, au judaïsme de son propre royaume. Nous avons donc encore un démenti : les Ituréens ont été fondus dans la masse juive sans avoir jamais séjourné dans l’espace restreint du petit royaume de Juda.

 

La lecture du livre de Sand nous apporte encore beaucoup d’autres éclairages sur l’invention du peuple juif et nous permet de reléguer au rayon des mythes sans consistance, non pas seulement ceux du sionisme laïcisé ou non, mais aussi tous ceux des monothéismes contemporains, notamment ceux que véhiculent, à grands renforts médiatiques, les biblismes américains, sud-africains ou protestants qui injectent dans le discours politique des absurdités religieuses, en dépit des leçons de l’histoire, des gestes impériales avérées ou des découvertes de l’archéologie. Le biblisme américain est surtout préoccupant, vu le poids considérable qu’il pèse sur le processus démocratique aux Etats-Unis, puissance hégémonique planétaire, et, partant, sur les processus de décision qui affecte, ipso facto, la vie politique de tout le globe. Le travail d’un Sand permet aussi de critiquer la transposition d’un biblisme ou d’un sionisme juifs dans le mental de protestants de souche anglo-saxonne, qui n’ont aucun lien « ethnique » avec la Palestine. Biblisme et sionisme protestants sont, au même titre que le sionisme fabriqué au 19ième siècle, sinon plus encore que ce sionisme, des fictions sans consistance ou des aberrations entachées de fanatisme.

 

Une réhabilitation de la notion d’empire

 

Indirectement, Shlomo Sand réhabilite la notion équilibrante et apaisante d’empire, en valorisant le syncrétisme hellénistique des Hasmonéens au détriment de l’exclusivisme judéen, repris par les sionistes, en avançant comme modèle l’idée de citoyenneté romaine mise en évidence par Mommsen et, simultanément, l’idée d’une citoyenneté impériale allemande après 1870. En effet, une idée impériale nouvelle et rénovée pourrait seule apporter la paix à un Proche Orient fragmenté par les tribalismes, les exclusivismes et les fictions politiques. Reste à savoir si une notion de citoyenneté, de mommsenienne mémoire, pourra s’appliquer de manière transrégionale en Europe ou déboucher sur une omni-citoyenneté européenne, incluant ou excluant les migrations récentes, survenues pendant les « Trente Glorieuses » et poursuivies par les regroupements familiaux. La volonté de certains de nous ramener non pas à une Judée mythique du Roi Salomon ou à une Germanie d’Arminius mais à une Arabie du 7ième siècle ne se heurte-t-elle pas à cette notion apaisante de citoyenneté impériale ? La question demeure ouverte et cet idéal, préconisé par Sand, débouchera-t-il sur une concrétisation voulue par des optimistes, frères en esprit des sionistes phalanstériens du début du 20ième siècle, ou échouera-t-il parce que des pessimistes auront finalement raison dans leurs analyses sans concession ni fard contre les tenants d’éthiques socialistes de la conviction ?   

 

Robert Steuckers.

 

Sources :

Shlomo SAND, Comment le peuple juif fut inventé, Fayard, Paris, 2008.

Shlomo SAND, Les mots et la terre – Les intellectuels en Israël, Flammarion, coll. « Champs », n°950, 2010.

Colin SHINDLER, A History of Modern Israel, Cambridge Université Press, 2008.

          

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samedi, 27 mars 2010

Young Turks - The Ally That Isn't

Srdja Trifkovic:

Young Turks

The Ally That Isn't

Ex: http://www.alternativeright.com/

erdogan%20gul.jpgInside the Beltway, the fact that Turkey is no longer an "ally" of the United States in any meaningful sense is still strenuously denied. We were reminded of the true score on March 9, however, when Saudi King Abdullah presented Turkish Prime Minister Recep Tayyip Erdogan with the Wahhabist kingdom's most prestigious prize for his "services to Islam." Erdogan earned the King Faisal Prize for having "rendered outstanding service to Islam by defending the causes of the Islamic nation, particularly the Palestinian cause," said Abd Allah al-Uthaimin of the prize-awarding group.

Services to the Ummah

Turkey under Erdogan's neo-Islamist AKP has rendered a host of other services to "the Islamic nation." In August 2008 Ankara welcomed Mahmoud Ahmadinejad for a formal state visit, and last year it announced that it would not join any sanctions aimed at preventing Iran from acquiring nuclear weapons. In the same spirit the AKP government repeatedly played host to Sudan's President Omer Hassan al-Bashir -- a nasty piece of jihadist work if there ever was one -- who stands accused of genocide against non-Muslims. Erdogan has barred Israel from annual military exercises on Turkey's soil, but his government signed a military pact with Syria last October and is conducting joint military exercise with the regime of Bashir al-Assad. Turkey's strident apologia of Hamas is more vehement than anything coming out of Cairo or Amman. (Talking of terrorists, Erdogan has stated, repeatedly, "I do not want to see the word 'Islam' or 'Islamist' in connection with the word 'terrorism'!")

Simultaneous pressure to conform to Islam at home has gathered pace over the past seven years, and is now relentless. Turkish businessmen will tell you privately that sipping a glass of raki in public may hurt their chances of landing government contracts; but it helps if their wives and daughters wear the hijab.

Ankara's continuing bid to join the European Union is running parallel with its openly neo-Ottoman policy of re-establishing an autonomous sphere of influence in the Balkans and in the former Soviet Central Asian republics. Turkey's EU candidacy is still on the agenda, but the character of the issue has evolved since Erdogan's AKP came to power in 2002.

When the government in Ankara started the process by signing an Association agreement with the EEC (as it was then) in 1963, its goal was to make Turkey more "European." This had been the objective of subsequent attempts at Euro-integration by other neo-Kemalist governments prior to Erdogan's election victory eight years ago, notably those of Turgut Ozal and Tansu Ciller in the 1990s. The secularists hoped to present Turkey's "European vocation" as an attractive domestic alternative to the growing influence of political Islam, and at the same time to use the threat of Islamism as a means of obtaining political and economic concessions and specific timetables from Brussels.

Erdogan and his personal friend and political ally Abdullah Gul, Turkey's president, still want the membership, but their motives are vastly different. Far from seeking to make Turkey more European, they want to make Europe more Turkish -- many German cities are well on the way -- and more Islamic, thus reversing the setback of 1683 without firing a shot.

The neo-Ottoman strategy was clearly indicated by the appointment of Ahmet Davutoglu as foreign minister almost a year ago. As Erdogan's long-term foreign policy advisor, he advocated diversifying Turkey's geopolitical options by creating exclusively Turkish zones of influence in the Balkans, the Caucasus, Central Asia, and the Middle East... including links with Khaled al-Mashal of Hamas. On the day of his appointment in May Davutoglu asserted that Turkey's influence in "its region" will continue to grow: Turkey had an "order-instituting role" in the Middle East, the Balkans and the Caucasus, he declared, quite apart from its links with the West. In his words, Turkish foreign policy has evolved from being "crisis-oriented" to being based on "vision": "Turkey is no longer a country which only reacts to crises, but notices the crises before their emergence and intervenes in the crises effectively, and gives shape to the order of its surrounding region." He openly asserted that Turkey had a "responsibility to help stability towards the countries and peoples of the regions which once had links with Turkey" -- thus explicitly referring to the Ottoman era, in a manner unimaginable only a decade ago: "Beyond representing the 70 million people of Turkey, we have a historic debt to those lands where there are Turks or which was related to our land in the past. We have to repay this debt in the best way."

This strategy is based on the assumption that growing Turkish clout in the old Ottoman lands -- a region in which the EU has vital energy and political interests -- may prompt President Sarkozy and Chancellor Merkel to drop their objections to Turkey's EU membership. If on the other hand the EU insists on Turkey's fulfillment of all 35 chapters of the acquis communautaire -- which Turkey cannot and does not want to complete -- then its huge autonomous sphere of influence in the old Ottoman domain can be developed into a major and potentially hostile counter-bloc to Brussels. Obama approved this strategy when he visited Ankara in April of last year, shortly after that notorious address to the Muslim world in Cairo.

Erdogan is no longer eager to minimize or deny his Islamic roots, but his old assurances to the contrary -- long belied by his actions -- are still being recycled in Washington, and treated as reality. This reflects the propensity of this administration, just like its predecessors, to cherish illusions about the nature and ambitions of our regional "allies," such as Saudi Arabia and Pakistan.

The implicit assumption in Washington -- that Turkey would remain "secular" and "pro-Western," come what may -- should have been reassessed already after the Army intervened to remove the previous pro-Islamic government in 1997. Since then the Army has been neutered, confirming the top brass old warning that "democratization" would mean Islamization. Dozens of generals and other senior ranks -- traditionally the guardians of Ataturk's legacy -- are being called one by one for questioning in a government-instigated political trial. To the dismay of its small Westernized secular elite, Turkey has reasserted its Asian and Muslim character with a vengeance.

Neo-Ottomanism

Washington's stubborn denial of Turkey's political, cultural and social reality goes hand in hand with an ongoing Western attempt to rehabilitate the Ottoman Empire, and to present it as almost a precursor of Europe's contemporary multiethnic, multicultural tolerance, diversity, etc, etc.

In reality, four salient features of the Ottoman state were institutionalized discrimination against non-Muslims, total personal insecurity of all its subjects, an unfriendly coexistence of its many races and creeds, and the absence of unifying state ideology. It was a sordid Hobbesian borderland with mosques.

An "Ottoman culture," defined by Constantinople and largely limited to its walls, did eventually emerge through the reluctant mixing of Turkish, Greek, Slavic, Jewish and other Levantine lifestyles and practices, each at its worst. The mix was impermanent, unattractive, and unable to forge identities or to command loyalties.

The Roman Empire could survive a string of cruel, inept or insane emperors because its bureaucratic and military machines were well developed and capable of functioning even when there was confusion at the core. The Ottoman state lacked such mechanisms. Devoid of administrative flair, the Turks used the services of educated Greeks and Jews and awarded them certain privileges. Their safety and long-term status were nevertheless not guaranteed, as witnessed by the hanging of the Greek Orthodox Patriarch on Easter Day 1822.

The Ottoman Empire gave up the ghost right after World War I, but long before that it had little interesting to say, or do, at least measured against the enormous cultural melting pot it had inherited and the splendid opportunities of sitting between the East and West. Not even a prime location at the crossroads of the world could prompt creativity. The degeneracy of the ruling class, blended with Islam's inherent tendency to the closing of the mind, proved insurmountable.

A century later the Turkish Republic is a populous, self-assertive nation-state of over 70 million. Ataturk hoped to impose a strictly secular concept of nationhood, but political Islam has reasserted itself. In any event the Kemalist dream of secularism had never penetrated beyond the military and a narrow stratum of the urban elite.

The near-impossible task facing Turkey's Westernized intelligentsia before Erdogan had been to break away from the lure of irredentism abroad, and at home to reform Islam into a matter of personal choice separated from the State and distinct from the society. Now we know that it could not be done. The Kemalist edifice, uneasily perched atop the simmering Islamic volcano, is by now an empty shell.

* * *

A new "Turkish" policy is long overdue in Washington. Turkey is not an "indispensable ally," as Paul Wolfowitz called her shortly before the war in Iraq, and as Obama repeated last April. It is no longer an ally at all. It may have been an ally in the darkest Cold War days, when it accommodated U.S. missiles aimed at Russia's heartland. Today it is just another Islamic country, a regional power of considerable importance to be sure, with interests and aspirations that no longer coincide with those of the United States.

Both Turkey and the rest of the Middle East matter far less to American interests than we are led to believe, and it is high time to demythologize America's special relationships throughout the region. Accepting that Mustafa Kemal's legacy is undone is the long-overdue first step.

Srdja Trifkovic

Srdja Trifkovic

Srdja (Serge) Trifkovic, historian and foreign affairs analyst, is the author of seven books -- including a best-seller, "The Sword of the Prophet" -- and former foreign affairs editor of "Chronicles" (1998-2009). He is a regular contributor to print and broadcast media outlets in Europe and all over the English-speaking world.